Quando parliamo della nostra identità, noi parliamo della nostra storia o, per meglio dire, della nostra memoria, del modo in cui, attraverso il ricordo, noi diamo un senso alla nostra biografia. Se la nostra memoria viene arbitrariamente mutilata, o ingannata, la nostra identità cambia, ma se quella stessa memoria viene recuperata, la parte di noi che avevamo abbandonato torna a comporre il nostro Io non come qualcosa che “eravamo” ma come qualcosa che “siamo”.
Quanto può essere faticoso e doloroso conoscere se stessi? Soprattutto se la propria identità sia incistata negli anni della lotta armata e del terrorismo e sia stata costretta a passare inconsapevolmente da una parte all’altra, da chi lotta ai padroni.
Con Le colpe dei padri (Piemme, 2013), Alessandro Perissinotto tenta una ricognizione degli anni Settanta da un’angolatura inedita, il tema del doppio e il parallelismo stringente con i tempi attuali, di forte crisi e di indifferenza sociale da parte del mondo industriale.
Guido Marchisio è un alto dirigente della Moosbrugger, una grande società, emblema della globalizzazione con sede a Stoccarda e filiali sparse nel mondo, compresa Torino. Nella difficile congiuntura economica Marchisio dovrà dimostrare di essere all’altezza delle aspettative del suo capo e maestro, che richiede da lui spregiudicatezza e sangue freddo, menefreghismo e nessuna compassione per i casi umani. Ma il protagonista non è in una congiuntura personale favorevole e per una serie di eventi, casuali e fortuiti, si troverà a dover mettere in discussione tutta la sua vita e le sue scelte, ritrovandosi con una pistola in mano.
Probabilmente alcuni passaggi e coincidenze della narrazione sono alquanto forzate, ma Perissinotto dimostra una grande lucidità nel raccontare una vita all’interno di momenti e istanze storiche determinate, mostrando come da alcune situazioni non abbiamo ancora imparato la lezione e anzi certe pratiche sediziose e negative si sono incancrenite nel tessuto sociale, tanto da resuscitare fantasmi e suggestioni di un passato che possiamo credere archiviato, ma con il quale non abbiamo ancora fatto i conti.
La cifra della narrativa dello scrittore torinese mi sembra risiedere nelle situazioni complesse e inestricabili, in cui sia difficile trovare un filo di Arianna che conduca alla verità. Anche una volta conquistata, la verità non ha nessun potere taumaturgico o pacificatore, ma al contrario alimenta e nutre contraddizioni e contrapposizioni.
Non so se la voce narrante fuori campo, di un io che racconta la vicenda di Guido come l’ha appresa dallo stesso protagonista per un’intervista a catastrofe accaduta, dia allo sguardo una maggiore imparzialità o invece abbia l’obiettivo di frantumare ulteriormente l’io del protagonista stesso, a tal punto dimidiato da non poter essere neanche più credibile come io narrante.
Senza dubbio Perissinotto ci porta nelle pieghe più recondite della vita della classe proletaria, del sogno velleitario di una generazione che dovette poi fare i conti con le violenze e le efferatezze, di una città come Torino segnata dalla vita di fabbrica, dall’emigrazione interna di un paese in cui la divaricazione tra Nord e Sud era lancinante e da queste premesse, con piena criticità, mostrare al lettore come nell’attualità tutto sembri tornare indietro, nelle aspettative deluse dei figli, nelle difficoltà dell’occupazione, nella pigrizia e miopia di chi ha in mano le redini del potere.
Lo straniamento nasceva da lì, e dalle parole che si susseguivano sullo schermo: il tempo entrava in crisi e Guido aveva l’impressione di non poter dire esattamente in quale anno si trovasse. I temi stessi di quei comunicati creavano strani cortocircuiti. L’abbandono di Confindustria non era annunciato per il prossimo gennaio? Cosa c’entrava il 1962? e il “contratto separato”, ma non era contro quello che i sindacati avevano sfilato sotto casa sua qualche settimana prima? No, quello di cui parlava “Il programma comunista” era vecchio di cinquant’anni, eppure … Il nemico di allora si chiamava Vittorio Valletta, e Vittorio Marchisio, fiero di condividere con lui il nome di battesimo, ne rimpiangeva ancora il piglio severo. Pochi, al di là dei soliti nostalgici estremisti di sinistra, avevano avuto l’idea di rievocare il nome di quello che, per quasi trent’anni, era stato il temuto padrone della città. Eppure … Historia se repetit gli suggerì un’improvvisa reminiscenza liceale.
Intrecciata con la storia del dirigente, c’è poi la parabola dell’uomo, che quando crede di essere arrivato, quando si guarda intorno per ammirare i fasti del suo trionfo, vede lentamente crollare il castello di carta in cui aveva creduto di porre la propria felicità, e inesorabilmente si mette alla ricerca di una maggiore introspezione, una spazio intimo in cui fare i conti con se stesso, il proprio passato e la propria contraddittoria e paradossale esperienza.
Adesso, più che che di poter esprimere un giudizio certo sull’operato dei suoi genitori, sentiva la necessità puerile di capire come loro avrebbero giudicato lui, ciò che era, ciò che faceva. Una volta, il figlio di George Simenon mi confermò ciò che gran parte dei biografi sostengono: il creatore di Maigret, l’uomo dai quattrocento romanzi e dalle diecimila donne, ricchissimo e ammirato, aveva cercato per tutta la sua vita l’approvazione di sua madre; e quell’approvazione non era mai giunta. Perché uno scrittore di straordinario successo come Simenon cercava il consenso dell’unica persona al mondo che glielo avrebbe sempre rifiutato? La risposta è custodita, credo, nello scrigno ancora inviolato dove riposano gli aspetti più segreti dei legami irrazionali che uniscono ognuno di noi a chi gli ha dato la vita.