Dove ci saremmo potuti incontrare io e Giovanni Ricciardi per chiacchierare del nuovo romanzo, “La canzone del sangue” (Fazi, 2015)? A Roma, dite voi, appassionati di Ottavio Ponzetti e delle sue passeggiate per una Roma viva e vivida, lontana dagli stereotipi e dai clichè. E invece, no…

Ci saremmo dovuti vedere su una spiaggia siciliana, con le dune alte, come quella di Kaos dei fratelli Taviani.

Perché Giovanni Ricciardi ci riserva una sorpresa…

Carissimo Giovanni, l’ultima avventura di Ponzetti è deliziosa. Cominciamo subito, con la dovuta cautela perché con i tuoi libri bisogna stare molto attenti a quello che si dice. Non solo per non svelare il mistero, come avviene con i gialli, ma perché la tua scrittura riserva sempre delle sorprese extra, di riflessione, di introspezione, di rappresentazione dei personaggi sui quali non voglio togliere nulla al piacere dei lettori. Prometto di essere molto cauta. Finalmente Ottavio Ponzetti in vacanza, in Sicilia per giunta. Come la moglie Gloria stentavo a credere che sarebbe durata e infatti… Non può proprio stare lontano da Roma il nostro pensoso commissario e se pure per poche pagine, eccolo in volo per tornare nella capitale. Occasione per lo scrittore per regalarci un’altra delle sue cartoline romane così fuori dai cliché narrativi dell’Urbe. Una Roma vissuta, intima e vera. Chi soffre di nostalgia il personaggio o lo scrittore?

Nessuno dei due. Ponzetti è radicato nella sua città, ma in questa storia ho voluto immergerlo in un altro luogo, soprattutto perché la Sicilia è una terra che evoca letteratura, evoca molte cose, uno straniamento e nello stesso tempo una ricerca più profonda di senso. Nel libro ci sono, disseminati qua e là, echi di Pirandello, Verga, Sciascia, oltre naturalmente un omaggio incondizionato a Camilleri. E c’è questa canzone,“Vitti na crozza”, che vale da sola un tentativo di metterla al centro di un giallo. Con umiltà, naturalmente, perché anche le grandi canzoni popolari sono grande letteratura.

Tu ci hai abituato ai gialli pieni di letteratura, di echi e di rimandi. Non solo disseminati nel testo, ma incarnati in un personaggio, Galloni, che io ho amato e continuo ad amare con una certa predilezione tra i tuoi, e che in questo nuovo romanzo mostra una fragilità emotiva che è sublime.

In “La canzone del sangue” tu spingi ancora di più sulla letterarietà della trama, scrivendo un vero e proprio giallo “filologico” e qui mi censuro. Dove hai ascoltato per la prima volta “Vitti na crozza”? Come lavora Giovanni Ricciardi su un nuovo mistero da risolvere: sente una canzone e…?

Galloni è nato, nel mio primo romanzo, come un novello Azzeccagarbugli. E’ ispirato a un personaggio reale, un medico che conobbi anni fa e che veramente viveva con un cane cieco. Incarna la letterarietà vera o presunta delle mie storie, ma in questo caso la sua “sublime fragilità” discende da un film che ho molto amato, “Il cuore altrove”, di Pupi Avati. E qui mi taccio anch’io.
Ho ascoltato “Vitti na crozza” tante volte, anche nelle riunioni familiari (la mia famiglia è di origine siciliana) e fu uno zio, quando avevo 15 anni a farmi notare che tra la musica allegra di questo canto e il suo testo tragico – su cui pochissimi si soffermano – passa un abisso. E così, giocando sulle diverse letture che di questo canto ho trovato in rete, ho pensato che si potesse costruire una storia a partire dalla canzone stessa. E’ un’operazione che fece già qualche anno fa un altro giallista, Alessandro Perissinotto, con “La canzone di Colombano”, ambientata in Piemonte.

Avendo visto “Il Cuore Altrove”, comprendo in pieno e ancora di più applaudo. Di più non dico, però! Ai lettori scoprirlo.

Torniamo a Camilleri. Ma anche qui dobbiamo andare cauti per non svelare troppo e rovinare la sorpresa. Possiamo dire che è presente Montalbano nell’indagine, che dà un piccolo aiuto (quanto importante ce lo puoi dire?) e che però lascia che sia Ottavio Ponzetti a risolvere il mistero.

Cosa ti lega a Camilleri? C’è qualche tratto in comune nella vostra scrittura? Di cosa ti senti debitore nei suoi confronti e in cosa invece ti senti diverso?

La cosa più divertente è il modo in cui i due commissari interagiscono: la riflessione che tu conduci attraverso di loro tra vita e finzione, come se sollevassi le quinte del palcoscenico per mostrare ai lettori ciò che non dovrebbero vedere. Ben più di un gioco metaletterario, c’è ironia, divertimento, paradosso.

“La vita vera non sempre mi appartiene” commenta Pozzetti. Doppio senso, finissimo.

Quanto ti sei divertito a giocare sui due piani della narrazione?

Coincide con una mia sensazione, tutto questo affaccendarsi intorno ai libri e alla scrittura, come se fosse vita reale. E invece è vita reale, ma solo se la viviamo con ironia, senza prenderci troppo sul serio. Mi pare che Camilleri sia sempre stato maestro di questa fine ironia. Godere di una buona storia, di quello che un tempo si chiamava lo stile, ma senza sentirsi portatori di chissà quale verità. È un modo per dire questo, un po’ come quando Bennato scrisse “sono solo canzonette”, il che non toglie nulla alla sublimità del sentire che si coglie in certe canzoni – non tutte. 
Per il resto, di Camilleri ho un ricordo bellissimo dell’unica volta che lo incontrai, e tra una sigaretta e l’altra mi spiazzò dicendomi che aveva letto il mio primo romanzo, “I gatti lo sapranno”, e che gli era piaciuto molto.

Sei anche tu, Giovanni, un arguto fumatore come Camilleri? La sua rubrica Posacenere su Domenica del Sole24Ore era una chicca domenicale imperdibile.

Tu e Ponzetti quanto o in che cosa vi somigliate?

Mi è sembrato di scorgere in “La canzone del sangue” una introspezione più sentita e personale del protagonista. Ponzetti mi ha conquistata subito per la sua malinconia esistenziale, per la compassione (nel senso etimologico del termine: partecipare alle sofferenze insieme agli altri) e il suo sapersi mettersi “accanto” alle vittime ma anche ai colpevoli. Non posso fare una riflessione sui colpevoli nelle tue storie, ma ecco tu hai questo sguardo particolare su di loro, non comune e molto significativo.

Non è che a furia di convivere con Ponzetti, finite per assomigliarvi sempre di più? C’è questo rischio nella scrittura seriale? è un rischio o un vantaggio?

Non so se di un fumatore si possa dire che è arguto, a meno che non si tratti di Camilleri in persona… comunque, sì, ahimè ho questo vizio brutto e costoso. Ponzetti non crede fino in fondo nella giustizia umana, e men che meno si sente un giustiziere. Nei miei libri – tranne che nel dono delle lacrime – c’è in effetti una sorta di empatia con le vittime ma in alcuni casi anche con i colpevoli, che proprio per questo restano sempre in qualche modo sullo sfondo, e mai nel cuore della narrazione. Ma è una cosa istintiva, non calcolata, mi esce così come viene. L’identificazione col personaggio principale sinceramente non so se sia un rischio o un vantaggio. Ma dato che Ponzetti narra in prima persona, ed è un caso piuttosto raro nel giallo contemporaneo, con la bella eccezione di Kostas Charitos, il commissario ateniese di Petros Markaris, è inevitabile che io finisca di tanto in tanto per prestargli i miei pensieri, le mie riflessioni.

E invece, Giovanni, come nascono e convivono gli altri personaggi seriali? Perché ormai anche di loro non potremmo fare a meno. Jorge, che in questo ultimo romanzo è più defilato e meno presente; la moglie di Ponzetti Gloria, che è lì mi pare a dare una direzione, a tracciare linee invisibili, senza di lei in “La canzone del sangue” non avrebbe senso quel friccicore colpevole che è molla e pungolo per continuare l’indagine e cercarne un senso; Maria e il suo nuovo amore, con la gelosia del padre e non solo; infine Galloni, già ricordato, e Iannotta, che definirlo un personaggio secondario è davvero poco.

“Personaggi di carta”? Forse questo è il vero, grande vantaggio della serialità, renderli più veri, più familiari, più vicini? Anche perché non deve essere facile per lo scrittore conservare la loro credibilità e mantenere le varie caratteristiche in comportamenti e reazioni coerenti.

Certamente il vantaggio della serialità è che il burattinaio conosce le sue marionette e le anima di una vita che è fatta di caratteri che hanno il rischio di essere sempre troppo fissi, e la difficoltà sta proprio nel dargli filo, lasciarli evolvere, immaginare come reagiranno davanti a una situazione nuova. Trovare sempre un equilibrio tra il riconoscimento del personaggio e gli elementi di novità. E’ un bel gioco, non credi?

Bellissimo gioco, direi, che come lettrice mi appassiona moltissimo! E tu come burattinaio sei bravissimo. E lo sei da subito, perché è dall’inizio che si sente una particolare familiarità con Ponzetti e da qui il desiderio di conoscerlo meglio, e insieme a lui la sua famiglia e il resto della sua cricca! Lo stesso mi è capitato con Jorge, nel romanzo in cui appare per la prima volta, che se non sbaglio è “Portami a ballare” (romanzo a cui sono particolarmente legata perché è quello con cui ho incontrato i tuoi personaggi). Questo dimostra che come burattinaio sei uno che ci sa fare! Introdurre un nuovo personaggio in una serie e farlo accettare amabilmente dai lettori non mi sembra cosa da poco.

Ultima domanda, o meglio curiosità! Incontra solo Montalbano, Ponzetti, oppure si mette a collaborare con altri commissari e investigatori amati dal pubblico? Con il Ricciardi di De Giovanni, che vive nella Napoli fascista, ci sarebbe il problema del tempo (ma un romanziere del tempo può fare quello che vuole), però Lojacono, sempre di De Giovanni, o Massimo di Malvaldi sono a una distanza agevole da Roma, no? Sai già se Ponzetti avrà da fare a Roma o altrove?

Non so cosa dirti, so solo che Ricciardi di De Giovanni mi ha già invitato a un incontro. Ma ci vorrebbe la macchina del tempo!!!

Il tempo per uno scrittore è una sfida grande! Aspettiamo con grande curiosità.

Chiacchierando (per la seconda volta) con… Giovanni Ricciardi