C’è una parola che non si può trasformare – avverte Francesca Marzia Esposito in “La forma minima della felicità” (Baldini&Castoldi, 2015). La parola è felicità. A scoprirlo nel romanzo Bambina, la nipote di 5 anni della protagonista, che con le parole ha un rapporto conflittuale, tanto da decidere di non parlare dopo l’ennesimo litigio dei genitori e poi riprendere all’improvviso, ma creandosi un proprio vocabolario di parole trasformate.

La felicità, quella minima, e le parole sono i temi fondanti dell’esordio, in una lingua nominale ricca di sensi, di Francesca Marzia Esposito. Luce è chiusa nel suo appartamento, capiremo solo nel corso della narrazione le varie origini del suo disagio, ipnotizzata da Canale 32, dedicato alla vendita di gioielli. Quando nella sua vita irrompe Bambina, per Luce comincia il risveglio lento e inesorabile tra piccoli gesti che sembrano senza senso e che nascondono invece la via di salvezza, dall’apatia che l’ha contraddistinta fino a quel momento. Risveglio di gesti, di sensazioni, ma anche di parole che finalmente esploderanno fuori da lei.

Francesca Marzia Esposito non scrive un romanzo ottimistico, non c’è un lieto fine cinematografico, ma descrive quella piccola luce alla fine del tunnel che ci impone di continuare a percorrerlo e ci costringe a rialzarsi, quando come Luce, si è persa la speranza di avere nella propria vita un barlume, seppure fioco, di felicità.

La felicità non si trasforma, ma può trasformarci, sembra dire la scrittrice, attraverso un personaggio duro granitico spigoloso e fragile come una statuina di vetro, l’importante è vedere la sua forma minima, quella inconsistente evanescente nascosta e comprendere che ne vale la pena.

In un romanzo in cui accadono poche cose, gli eventi sono ridotti all’osso, scarnificati nella loro banalità, alla memoria e al ricordo sono affidati i grandi fatti che hanno sconvolto la vita di Luce, agli incontri e ai ritorni la forza di raccontare attraverso dialoghi serrati, bellissimi, il senso della trasformazione, inesorabile dentro di noi.

Lo stile di Francesca Marzia Esposito è folgorante: un uso della parola nel suo senso più arguto, una sintassi semplice, spesso nominale che affida ai nomi più che ai verbi la comunicazione, una duttilità di linguaggio che nasconde un’ironia profonda, quanto acre, uno scorrere delle riflessioni per antitesi che affermano, negano, riducono, ampliano.

I miei problemi sono risolvibili.

I miei problemi sono irrisolvibili

I miei problemi sono immaginari.

I miei problemi immaginari si dividono in risolvibili e irrisolvibili. A volte gli irrisolvibili da fuori possono sembrare risolvibili e viceversa.

La risoluzione del problema richiede una certa mancata percezione del problema. Se sei troppo attaccato al problema non c’è soluzione in vista.

I miei problemi sono l’unica cosa che ho.

Luce non lo sa, chiusa nel suo appartamento, ma intorno a lei brulica la vita con tutti i suoi problemi, e i messaggi nella bacheca condominiale ne sono la prova e la testimonianza. Su tutti gli aforismi di D’Io che mostrano come l’ironia sia l’unica arma per affrontare la vita, senza riderci su.

Concentrati spesso, diluisciti ogni tanto.

Tutti abbiamo un sogno nel cassonetto.

Contengo moltitudini. Tutta gente in piedi

Che cerca posto a sedere.

Certe persone non le conosci mai abbastanza.

Certe altre, grazie, è abbastanza così

Io credo nei pre sentimenti.

Tutte le cose in ordine di comparizione.

Non so nemmeno di che stai parlando.

Ti sta andando talmente bene che non vedi la

Sottrazione.

Ho capito, e la risposta è: bagagli a mano,

solo bagagli a mano.

Per i pesi interni, invece?

D’Io

La forma minima della felicità