Chi può dimenticare “La finestra sul cortile” di Hitchcock? La trovata geniale di un uomo immobilizzato su una sedia a rotelle che osserva dalla propria le case altrui per immaginare e poi scoprire i segreti intimi della vita di persone sconosciute che però condividono lo stesso spazio e solo per questo, per essere visibili agli occhi del protagonista, diventano familiari?

Da un elemento simile parte Paula Hawkins con “La ragazza del treno” (traduzione di Barbara Porteri, Piemme, 2015).  Rachel dalla vita disastrata dall’amore e dall’alcool viaggia ogni giorno in treno dalla periferia a Londra, stesso orario ogni giorno all’andata e al ritorno, per ingannare l’amica, proprietaria di casa, che l’ha accolta quando, già alcolista, è stata lasciata dal marito, e a cui non ha confessato di aver perso il lavoro. Durante il tragitto non può fare a meno di osservare dal finestrino del treno una villetta, non lontana da quella che aveva abitato con il marito Tom e che lui adesso divide con la nuova moglie Anna, dove osserva una coppia che a suoi occhi appare perfetta, Jason e Jess. Non sono i loro veri nomi, ma quelli inventati per loro da Rachel.

Non conosco i loro veri nomi, me li sono inventati. Ho scelto Jason perché lui è bello come un attore inglese; non è  un tipo alla Brad Pitt o alla Johnny Depp, ma assomiglia a Colin Firth o a Jason Isaacs. Jess suona bene con Jason, e le si addice. È perfetto per lei, così graziosa e sbarazzina. Sono una bella coppia, ben assortita. E, da quello che vedo, sono felici. Sono come eravamo noi, come me e Tom, cinque anni fa. Loro sono ciò che io ho perso. E tutto quello che voglio essere.

Attraverso di loro, Rachel si crea un mondo parallelo in cui vivere una seconda vita, immaginaria e consolatoria del degrado in cui è caduta lei e la sua esistenza:

Non sono più la ragazza di una volta: ormai non sono più desiderabile, anzi, sono diventata sgradevole. Non è solo perché sono ingrassata e ho il viso gonfio per l’alcol e la mancanza di sonno: gli altri leggono i segni della devastazione scritti sul mio corpo, sul mio volto, nel mio comportamento, nei miei movimenti.

Nonostante il racconto sia a tre voci, Rachel Anna e Megan (il vero nome di Jess), è la prima a cui è affidata in maniera più incisiva la narrazione. Un giorno scopre Jess che nel giardino di casa bacia un uomo diverso da Jason. La scoperta manda in frantumi l’idillio che la sosteneva a vivere. Jess ha tolto la maschera, che non aveva mai indossato con consapevolezza, per mostrare la sua vera identità, quella di Megan. Rachel non può sopportarlo, beve beve beve, e poi decide di presentarsi a casa di Jason e Jess, rischiando di incontrare l’ex marito, che ancora tormenta con telefonate soprattutto in preda all’alcool, e la nuova moglie Anna. Ma l’alcool dà ardimento ed eccola sul treno, li vede sulla terrazza, scende alla stazione di Witney per incamminarsi a casa loro… blackout. La ritroviamo a casa sua, in preda a una strana angosciante sensazione e ridotta in condizioni estreme:

Arriva come un’onda nera, terrore puro.

È successo qualcosa, ne sono certa. Non riesco a descriverlo, ma lo sento. Mi fa male la bocca, come se mi fossi morsicata l’interno della guancia; sulla lingua sento il sapore ferroso del sangue. Ho la nausea, sono confusa. Mi passo la mano sulla testa e rabbrividisco: c’è un bernoccolo dolorante, sul lato destro. I capelli sono sporchi di sangue.

Cosa sarà successo? Rachel cerca di raccogliere le idee, ma i fumi dell’alcool le impediscono di vedere con chiarezza, poi i tasselli si ricompongono, in una storia in cui le tre figure femminili, Rachel Anna e Megan, intrecciano le loro esistenze, come in una sfida all’ultimo sangue. Sullo sfondo gli uomini, Tom Scott e Kamal, guardati sempre e soltanto dalle donne, ma forse è proprio nello sguardo parziale la chiave d’accesso alla verità?

Quando Megan sparisce, per Rachel è una sferzata dolorosa di energia. Si sente coinvolta nella questione, sia perché la scomparsa è avvenuta proprio in quella terribile notte sulla quale lei ha solo sprazzi di conoscenza, sia perché emotivamente Megan è Jess, l’altra se stessa, quella felice.

Non sono più soltanto una ragazza sul treno, una che avanti e indietro senza motivo, senza scopo. Voglio che Megan torni a casa sana e salva. Davvero, lo voglio, ma non subito.

Paula Hawkins costruisce un thriller psicologico, sottilissimo in cui mostrare il lato buio e oscuro della femminilità, in particolare legata alla maternità. Una discesa infernale nei gorghi dell’anima, dove si impigliano i sogni non realizzati che diventano ferite aperte e putrescenti. Rachel, Megan e Anna sono più simili di quello che le loro esistenze diverse, soprattutto il loro essere madri o madri mancate, possa far presagire. Su di loro incombono gli uomini, con la loro forza, a tratti brutale, e la loro indifferenza.

Quando il treno si ferma al semaforo, senti un cambiamento nell’atmosfera: è come il ronzio della corrente elettrica. Adesso non sono l’unica a guardare fuori dal finestrino, forse non lo sono mai stata. Di solito, i passeggeri osservano le case che sfilano lungo i binari, ma le vedono in maniera diversa. Ora però tutti vedono la stessa cosa; qualcuno ne parla a voce alta.

La ragazza del treno
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