Quando ho chiesto a Giovanni Accardo dove avremmo potuto darci appuntamento, la sua risposta è stata: – Ti avrei invitata a Bolzano, a passeggiare lungo il Talvera, il fiume che scende dalla val Sarentino e taglia in due la città, chiacchierando tra tamerici e siepi di glicine, all’ombra di acacie, ippocastani, platani, tigli, magari in una bella giornata di sole di maggio o settembre, ogni tanto fermandoci per ammirare lo Sciliar, il Renon, il Rosengarten e le altre montagne che circondano la città.

Immaginateci con questo sfondo, dunque, mentre leggete la lunga chiacchierata che abbiamo avuto per mail su “Un’altra scuola” (Ediesse, 2015)

Nel leggere “Un’altra scuola” mi sono sentita pienamente rappresentata come insegnante negli atteggiamenti e nelle riflessioni, mi sono ritrovata nelle domande e nei dubbi che socraticamente dovrebbero essere il nervo scoperto e prezioso dell’insegnamento, e nello stesso tempo ho applaudito la tenuta narrativa del libro: la forma diaristica ti consente di passare dalla descrizione all’analisi dei fenomeni, dal racconto all’introspezione. Il diario però può avere il forte limite dell’autoreferenzialità, di non essere dialettico, di non prendere in considerazione gli altri, concentrando il racconto su di sé. Tu superi questo limite non solo con la presenza di pagine che valicano i limiti del diario e si trasformano in racconti, ma anche e soprattutto con le mail degli studenti, che danno voce agli altri, con le loro emozioni e sentimenti.

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

Grazie davvero di cuore. Quando uno scrive il rischio è sempre quello di non riuscire a trasformare in parole le intenzioni, la tua mail invece mi conforta moltissimo, come mi confortano tutte quelle ricevute fino ad ora. Certo, il rischio dell’autoreferenzialità in un diario è fortissimo, ho cercato di evitarlo il più possibile, mi dici che ci sono riuscito e questo mi rende felice.

Un’altra scuola. Mi pare di intendere che nell’aggettivo ci sia una polisemia forte. Altra è la scuola in cui ti trovi a operare, Bolzano con la sua diversità e il suo bilinguismo; altra è un augurio che si basa sulle diverse provocazioni che nel libro intrecci alla descrizione della scuola che c’è, in particolare con le lettere al futuro ministro e ai signori Invalsi in cui tracci e contrapponi l’idea della “tua” scuola da quella che i politici stanno tracciando per noi; e ancora altra in riferimento ai tanti pregiudizi e stereotipi che circolano sulla scuola, dalle 18 ore settimanali alle lunghe vacanze estive, per arrivare a un quadro macchiettistico con gli alunni in assemblea in palestra, pur avendo un’aula magna a disposizione, nel film che viene girato nella tua scuola.

Un’altra scuola è realtà, possibilità, speranza o cos’altro?

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

Hai colto perfettamente nel segno. Ho voluto scrivere un libro da contrapporre a tutti quelli denigratori verso la scuola, quei libri dove gli insegnanti sono soltanto delle caricature (lavativi, ignoranti, psicopatici) e gli studenti dei deficienti. Mi sembrava fosse giusto raccontare un’altra scuola, quella degli insegnanti che lavorano con serietà e passione, che trascorrono le domeniche in casa a correggere compiti, che si alzano all’alba per progettare percorsi innovativi, che si preoccupano di aggiornarsi e costruire una buona relazione coi propri studenti. Dunque un’altra scuola esiste già, forse minoritaria, ma esiste: da Palermo a Bolzano. E da qui, secondo me, che bisogna partire per costruire un’altra scuola da contrapporre a quella talvolta giustamente criticata dai genitori, cioè la scuola demotivante, ma anche a quella usata strumentalmente dai governi che si succedono, ovvero la scuola ideologica. Gli insegnanti non devono avere paura di mettersi in gioco, solo così si può difendere la qualità della scuola, ma bisogna farlo con onestà e passione, investendo energia ed emozioni in una professione difficile, faticosa eppure profondamente stimolante. Poi, certo, c’è la scuola dell’Alto Adige, di Bolzano, dove vivo e dove, con le necessarie finzioni narrative, ho ambientato il mio libro; una realtà a tratti complessa ma ricca di stimoli.

 

“Un’altra scuola” è un diario che ricopre un intero anno scolastico, da fine agosto al 15 giugno in cui racconti l’esperienza di un docente, un io altamente “verisimile”. Mi ha colpita e affascinata questa tua volontà di non presentare un quadro idillico dell’insegnamento, ma realisticamente mosso complesso sfumato.

Ci sono due poli in cui mi sembra che il protagonista si muova: da una parte la distanza tra gli insegnanti e gli studenti emblematizzata dalla lettura di Kerouac, travolgente per il docente da ragazzo, e noioso per gli allievi di oggi che gli preferiscono Manzoni; dall’altra la pertinace volontà del docente di entrare in relazione con i suoi allievi, e anche per questa sfida usi un simbolo, le scarpe, le Vans, che messe ai piedi dell’insegnante fanno gridare agli alunni: – Prof. sei grande!

Mettersi nei panni (o dovrei dire nelle scarpe) degli allievi può essere la chiave giusta per motivarli allo studio? Come si colma la distanza tra discente e docente? Cosa si perde e cosa si guadagna nell’accorciare le distanze e tentare di andar loro incontro?

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

Uno degli errori più frequenti che ho visto fare a diversi docenti da quando insegno è stata la contrapposizione tra noi e loro, tra la scuola di oggi e la scuola dei “miei tempi”, con l’unico risultato di costruire barriere. Il passato visto come una sorta di Eden in cui gli studenti studiavano obbedienti e rispettosi verso l’insegnante. Ma davvero quando noi eravamo ragazzi funzionava così? Io non credo, perché la scuola della mia adolescenza la ricordo come molto noiosa e caratterizzata da una distanza abissale tra studenti e professori; addirittura non dicevano neppure i voti che ti davano nelle interrogazioni. Non c’era alcun dialogo né alcun coinvolgimento attivo nella pratica didattica. In ogni caso non possiamo entrare in classe oggi e pensare agli studenti di ieri. Tra me adolescente di ieri e gli adolescenti di oggi c’è un abisso, dunque è con questi alunni, qui ed ora, che dobbiamo fare i conti, altrimenti li allontaniamo, li demotiviamo, miniamo la loro autostima. Questo non vuol dire adattare i programmi ai loro desideri, ma confrontarci costantemente, ascoltarli, avvicinarci, prenderli per mano, per così dire, e portarli dove secondo noi è giusto che vadano per imparare, crescere e maturare. Uno dei miei segreti per creare un buon clima d’aula e favorire l’apprendimento è l’ironia, faccio spesso battute scherzose, mi prendo e li prendo in giro, e vedo che questo allenta paure e tensioni. L’altro è quello che ho battezzato effetto placebo: di fronte alle difficoltà io sprono gli studenti come in una sfida, confidando nelle loro capacità. Faticherete, dico loro, ma sono certo che raggiungerete il risultato. Li sottopongo ad iniezioni di fiducia per potenziare l’autostima, utilizzo quello che in farmacologia si chiama “effetto placebo”. L’aspettativa positiva nei confronti di un farmaco influenza l’atteggiamento che il paziente ha verso la terapia, nel suo cervello, infatti, aumentano i neurotrasmettitori che mediano le sensazioni di piacere e dolore e si riducono quelli coinvolti nell’ansia. Oggi sappiamo che anche gli affetti e le motivazioni personali possono produrre gli stessi risultati. Io lo sperimento tutti i giorni, ovviamente i risultati cambiano in base al clima di classe e sono direttamente proporzionali alla stima e alla fiducia che lo studente ha nei confronti dell’insegnante.

 

Un altro punto cruciale del tuo racconto diaristico è il rapporto con i genitori. Scenette di vita “colloquiale” spesso intessute di diffidenza, in cui non manca una certa durezza difensiva da parte del protagonista di fronte all’accusa “lei ce l’ha con mio figlio”. Con gli allievi c’è il tempo e il modo di relazionarsi, ma con i genitori? Quali potrebbero essere gli spazi e i contesti per ricucire un rapporto di intensa e di condivisione? C’è un passaggio del libro che mi ha colpito: la mamma e la figlia, tua allieva, che vengono alle iniziative letterarie e culturali che tu organizzi fuori dalla scuola, e i genitori e i nonni che leggono i libri che tu consigli in classe ai loro figli e nipoti. Questa è osmosi tra scuola e famiglia, lasciata però alla libera volontà personale, senza essere “istituzionalizzata” dalla scuola. Manca da parte dei genitori il riconoscimento dell’insegnante come figura intellettuale, come un tempo erano Pasolini e Sciascia, citati espressamente nel tuo libro. Sono i genitori i primi a non credere nel valore formativo della scuola e si prestano alla manipolazione dei politici che vogliono una scuola “che serve”, mentre come dice Bajani in un libricino che ho amato moltissimo “la scuola non serve niente” e non deve servire a niente! Solo se rimane fuori e al di sopra di una professionalizzazione vuota di cultura la scuola è davvero utile, in termini etici e non concreti. A cosa serve la scuola per te, Giovanni?

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

A cosa serve la scuola? A molte cose. Poiché insegno italiano e storia, vorrei che i miei studenti imparassero ad amare la letteratura e la lettura, ma anche che diventassero cittadini responsabili e dotati di spirito critico, capaci di ragionare sui fatti del mondo, di ascoltare e dialogare, non meri esecutori di compiti. In quinta di solito regalo loro questa riflessione di Primo Levi: “Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento.” La scuola non deve avere solo finalità pratiche, in questo sono d’accordo con Andrea Bajani, mentre negli ultimi anni avanza sempre di più l’idea che la scuola debba essere collegata col mondo del lavoro e rispondere alle esigenze del mercato. Lo scorso novembre ho portato una classe del Liceo Economico Sociale in cui insegno in visita alla LUISS a Roma, sia per un incontro di orientamento, sia per visitare la scuola di giornalismo. Il responsabile dell’orientamento ha stupito gli alunni quando ha detto che i dipendenti di Google America hanno prevalentemente lauree umanistiche (filosofia, lettere, psicologia), perché si punta molto sulla creatività e non solo sul sapere tecnico.

Riguardo al rapporto con i genitori, è una questione delicata, perché negli ultimi 20 anni è all’insegna della contrapposizione: i genitori non vedono l’insegnante come un alleato ma come un nemico. Le ragioni di questo mutamento sono tante, sicuramente la crisi della famiglia, l’insoddisfazione generale che spinge a proiettare nell’altro le proprie frustrazioni, la crisi economica che suscita paura. Sbagliano i genitori a vivere i risultati negativi o i fallimenti dei propri figli come un giudizio personale, e sbagliano a giudicare negativamente il fallimento, mentre esso può diventare un’occasione di crescita e di trasformazione, com’è accaduto a me quando studiavo Medicina, lo racconto nel libro. Però la sfiducia che i genitori hanno verso gli insegnanti ha ragioni anche nel mondo della scuola, ci sono tanti insegnanti demotivati e demotivanti, insegnanti che vivono questa professione soltanto come una busta paga a fine mese, non rendendosi conto che essa richiede passione, studio, continuo aggiornamento. Ci sono tanti insegnanti che non sono in grado di fare un mestiere che richiede competenze relazionali che non tutti hanno, ed ecco che diventa indispensabile investire nella formazione e nella selezione degli insegnanti. Scuola e famiglie dovrebbero sottoscrivere un patto educativo, sulla base di obiettivi disciplinari ed educativi condivisi, ciascuno con il proprio ruolo e la propria responsabilità. Si deve passare ad un rapporto di collaborazione nell’interesse degli studenti e del loro futuro.

 

Giovanni, da insegnante e non solo da lettrice in “Un’altra scuola” ho trovato tanti spunti importanti che ho fatto miei, non solo di riflessione e interrogazione (perché nel diario tu sollevi anche tante domande, proponendo poi nella pratica del tuo insegnamento un risposta, ma prendendo le distanze dai proclami teorici e programmatici. Questo è forse l’aspetto del libro che ho più amato e condiviso), ma anche di didattica (come i percorsi interdisciplinari che proponi, o anche le letture e gli autori che citi e che i tuoi allievi hanno letto e incontrato, o anche le occasioni che hai dato ai tuoi alunni di uscire fuori dalle aule). Adesso dopo la nostra chiacchierata, farò mio anche questo dono e a nome tuo porgerò la riflessione di Levi ai miei alunni quando arriveranno in quinta.

Forse le maggiori e più impellenti domande che ti fai nel libro sono quelle sulla valutazione, per me un vero tormento. Mi sono sentita letta dentro nella pagina di martedì 2 ottobre quando scrivi:

Può esistere una valutazione oggettiva? può la valutazione ignorare la persona, il suo carattere, la sua storia, la sua personalità? la valutazione oggettiva tiene conto dell’imperfezione degli esseri umani?

Se te le rigirassi come domande?

C’è invece un punto in cui mi sono trovata in disaccordo con te.

Preferisco gli studenti che studiano – scrivi a un certo punto. Io invece preferisco quelli che non studiano. Non so se può dipendere dal mio cursus di insegnante, prima nelle scuole medie e oggi in un professionale, ma io mi sento molto più vicina a quelli che non studiano, partendo dal presupposto che spesso, molto spesso, chi non studia è perché non sa studiare e l’apprendere ad apprendere dovrebbe essere unico, fondante, insostituibile compito della scuola. Rispetto agli studenti bravi e volenterosi, la mia preferenza va a quelli più demotivati e frustrati. Anche su questo punto c’è un passo del tuo diario che mi rappresenta in pieno, con tutto il mio rovello:

Venerdì 14 dicembre: Quando correggo verifiche e mi accorgo che tanti studenti non hanno studiato, sforzandosi al massimo di arrampicarsi sugli specchi, assemblando confusamente parole vuote che non vogliono dire nulla o concetti palesemente errati; quando tocco con mano il loro disinteresse o la loro superficialità, la frustrazione mi invade, si fa sangue che scorre nelle vene, sangue amaro, insieme alla rabbia, e mi domando dove ho sbagliato, cosa non ho fatto e cosa avrei dovuto fare.

Ci sono giornate così, di domande senza risposte.

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

La valutazione degli apprendimenti di un adolescente non può essere oggettiva, soprattutto nelle discipline umanistiche, dove di oggettivo c’è davvero poco. Per questo critico i test Invalsi, a cui nel libro ho dedicato una lunga lettera, perché non tengono conto del percorso dello studente. Inoltre ogni studente ha i propri tempi, è una follia pensare che tutti possano raggiungere il medesimo risultato e nel medesimo tempo. Ci sono studenti, l’ho raccontato nel mio libro, che magari hanno un improvviso risveglio all’università, per svariati motivi, anche di tipo emotivo. L’insegnante non può prescindere dal valutare tutte queste cose, non può ignorare neppure le condizioni familiari dello studente e soprattutto non dobbiamo dimenticare che la valutazione va da 1 a 10, e non si può pretendere che tutti abbiano 8, come pure fanno taluni insegnanti. Inoltre credo che il nostro compito, la sfida direi, sia quella di prendere un alunno che ha 5 e farlo arrivare ad otto, e non pretendere che l’alunno abbia 8 di suo. La cosa più “facile” per un insegnante è dare insufficienze o bocciare, mentre la cosa più difficile è portare alla sufficienza, motivare allo studio gli studenti insufficienti. Per nove anni ho insegnato al Centro di Formazione Professionale di Bolzano, la scuola degli ultimi, e per me è stata un’esperienza altamente formativa, anche se estremamente faticosa. Al CFP non volevano sentire la parola scuola, quello che i ragazzi dovevano imparare era solo una professione. A me, invece, sembrava che elettricisti ed automeccanici, parrucchiere ed estetiste avessero bisogno di essere scolarizzati e liberati dalla condizione di perdenti con la quale giungevano dalla scuola media. Ci arrivavano solo studenti apatici, demotivati e che avevano in odio la scuola e gli insegnanti, avendo collezionato più provvedimenti disciplinari che regole di grammatica. La prima materia che insegnai si chiamava educazione linguistica e sociale, destinata poi, grazie alla elevazione dell’obbligo scolastico a 15 anni, a sdoppiarsi in italiano e storia, ma solo al primo anno. Non c’erano né programmi né libri di testo, ognuno insegnava quel che voleva. Dopo i primi giorni andai dal direttore, persona di assoluto buon senso e di grande gentilezza, e gli dissi che bisognava comprare almeno un’antologia d’italiano. La buttai in politica, gli dissi che non potevamo formare degli eterni perdenti, che senza un adeguato patrimonio lessicale quei ragazzi non sarebbero stati in grado di far valere i propri diritti né nel mondo del lavoro, né nella vita. Il direttore mi diede il via libera e per la prima volta arrivarono i libri, addirittura comprati dalla scuola e dati in comodato gratuito ai ragazzi. Però, hai voglia di dire cambiamo il mondo, stiamo dalla parte degli ultimi! Io, a forza di insegnare a chi non voleva imparare, cominciavo ad esaurire le mie energie creative ed intellettuali. Eppure, in quegli anni alla Formazione Professionale ho imparato due cose fondamentali per il mio mestiere: di fronte ad una difficoltà non serve a nulla lamentarsi, bisogna soltanto trovare la soluzione; se vuoi che uno studente ami la scuola, almeno una volta devi fargli sperimentare il successo.

Quando nel mio libro dico che preferisco gli studenti che studiano, sto provocando una mamma che si lamenta sempre dei voti negativi del figlio, credendo che il ragazzo non li meriti e che siano soltanto frutto dell’antipatia dell’insegnante che fa, appunto, delle preferenze. I genitori a volte sbagliano, perché non si domandano se il voto negativo il figlio se l’è guadagnato col poco studio, sembra che sia colpa dell’insegnante, delle sue simpatie o antipatie, e che il figlio non c’entri nulla. Questi atteggiamenti naturalmente non aiutano i ragazzi a crescere, a sviluppare autonomia e senso di responsabilità. Nello specifico, lo studente a cui pensavo quando ho narrato l’episodio, ancora oggi, a quattro anni dal diploma (conseguito con un 60 davvero regalato), sta a ciondolare senza far nulla: non studia né lavora, ma non credo per colpa degli insegnanti.

Lamentarsi… voglio citare in proposito un passo di “Un’altra scuola”, uno dei molti che ho evidenziato nel corso della lettura. Non rileggo i libri, o meglio quasi mai rileggo i libri, ma mi piace sfogliarli e ritrovare i punti che avevo giudicato fondanti e il tuo è fitto di sottolineature. Siamo a lunedì 29 Aprile.

Lamentarsi. Questo è il verbo preferito dagli insegnanti. LA-MEN-TAR-SI, Ma anche dagli studenti e dai genitori. LA-MEN-TAR-SI.

Serve a qualcosa? Ve lo chiedo. Il lamento è paralizzante, claustrofobico, non sposta di un millimetro il problema, anzi, alimenta e moltiplica la rabbia, il senso di inadeguatezza, la frustrazione che porta a lamentarsi. Io dai miei studenti non accetto lamentele o giustificazioni, dico sempre che l’unica cosa che posso giustificare sono le assenze. Di fronte a un problema servono soluzioni. Nient’altro.

Soluzioni. Soluzioni per salvare la scuola.

Salvare la scuola senza distruggerla: sembra un paradosso, un ossimoro, un nonsense, e invece è l’unica via d’uscita.

Come si fa, Giovanni, a superare l’ossimoro? Perché come tu lamenti nel libro, tutte le riforme sulla scuola che si sono succedute nel corso degli anni e dei governi hanno avuto l’unico obiettivo di distruggere ciò che veniva prima, con grande frustrazione del lavoro degli insegnanti. Si può salvare la scuola senza distruggerla? Tu stesso racconti della grande difficoltà di redigere un documento che valesse per tutti gli insegnanti e che fosse una risposta ai tagli.

Tu parti con una provocazione:

Aboliamoli: ministri e ministeri. Facciamo da soli, che faremo meglio.

e termini con una provocazione, che ha il sapore del pragmatismo: la lettera al futuro ministro in cui l’inviti, senza il codazzo dei giornalisti, ma spinto unicamente dall’impegno etico di adempiere il suo compito, a prendersi un anno per girare le scuole, entrare nelle aule, osservare la vita di docenti e alunni, guardare gli spazi e le attrezzature e solo alla fine di questo viaggio mettere mano alla riforma sulla scuola.

Ha ragione Eraldo Affinati, che firma un’incisiva prefazione a “Un’altra scuola”, che il tuo è un libro politico? e Giovanni Accardo si specchia maggiormente nel piglio civile di Leonardo Sciascia o nel paradosso drammatico di Luigi Pirandello?

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

Il succedersi di governi e maggioranze variabili, secondo quel trasformismo che caratterizza da sempre la vita politica italiana, ha causato l’avvicendamento di numerosi ministri al Ministero dell’Istruzione. Ognuno di loro, con modalità diverse, ha sognato di realizzare una riforma epocale della scuola, che però richiederebbe tempo e conoscenze e non, come il più delle volte è accaduto, superficialità e improvvisazione. Esiziale in tal senso è stato l’arrivo di Berlusconi sulla scena politica, cioè un imprenditore televisivo che ha trasformato la politica in un prodotto da commercializzare, contagiando quasi tutti i partiti politici. La scuola di tutto ha bisogno tranne che di essere sottoposta alle logiche del marketing pubblicitario. Ecco perché propongo di abolire il ministero, per liberarci dalle riforme.

È possibile salvare la scuola se non la si usa strumentalmente e ideologicamente, studiandone piuttosto i problemi con serietà e onestà. La riforma Gelmini, ad esempio, è stata una deleteria operazione di marketing (il ritorno del grembiulino!) e una disastrosa serie di tagli del personale, con riduzione delle cattedre e l’aumento del numero degli studenti per classe. La Gelmini, peraltro (in questo sostenuta dai ministri Tremonti e Brunetta), si è rivolta agli insegnanti come a dei nemici da abbattere, considerati solamente dei fannulloni. Non c’è stata alcuna preoccupazione didattica o visione pedagogica della scuola. Dove concentrare l’attenzione? Innanzitutto sulla formazione e la selezione degli insegnanti: non è sufficiente conoscere una determinata materia per saperla insegnare. In una scuola dove ho insegnato c’era un tecnico di laboratorio capace di risolvere un sacco di problemi tecnici, perché conosceva molto bene l’informatica e le nuove tecnologie, ma quando provava a spiegare qualcosa, non si capiva nulla. Sapeva fare ma non insegnare. Per troppo tempo si è data la possibilità di sedere in cattedra a chiunque, sorvolando sulle capacità didattiche, soprattutto su quella di costruire una relazione con gli studenti, bambini e adolescenti con una emotività che non è da tutti saper gestire. L’insegnante, secondo me, non è un mestiere per tutti, oltre alle conoscenze servono competenze didattiche e relazionali, ma anche una grande passione. Poi serve un continuo aggiornamento degli insegnanti e anche la loro valutazione, ma quest’ultimo è un tasto molto delicato, perché andrebbe fatta con obiettività e possibilmente non dal solo dirigente scolastico. Credo che parte dello stipendio dovrebbe essere legato proprio alla valutazione. Conosco un insegnante che dal primo settembre andrà in pensione, ha insegnato per 40 anni e tutti se lo ricorderanno per avere litigato sempre con tutti: studenti, genitori, dirigenti e insegnanti. Per 40 anni ha urlato come un pazzo, eppure guadagna il doppio di un giovane insegnante magari molto più efficace di lui e che non crea i suoi problemi.
Sono molto contento che Eraldo Affinati abbia definito “Un’altra scuola” un libro politico. Nei miei libri (“Un anno di corsa”, pubblicato da Sironi nel 2006; “Il diavolo d’estate”, ancora inedito) c’è sempre una presa di posizione politica, un desiderio di testimoniare o denunciare, la scrittura d’intrattenimento non m’appartiene. Forse perché le mie prime letture, da adolescente, sono stati i quotidiani e i settimanali (Repubblica, Paese Sera, L’Espresso), in particolare le cronache politiche; lo racconto proprio nel romanzo inedito, ambientato nell’estate del 1978 in Sicilia. Poi ho letto moltissimo Sciascia, che è stato davvero formativo per la mia coscienza critica: avevo 16 anni quando ho letto “L’affaire Moro”, magari non ho capito molto, ma sono orgoglioso di pensare che a quella età leggessi i libri di Sciascia, e non solo i romanzi.
 Pirandello l’ho letto che ero ormai adulto e secondo me ogni siciliano dovrebbe leggerlo per capire che uno dei nostri mali è la finzione, la maschera, appunto. In questo sono pienamente d’accordo con Sciascia, quando scrive che Pirandello ha messo in scena i suoi compaesani, tutti preoccupati delle apparenze e ossessionati dal giudizio degli altri. Solo da uno scrittore siciliano poteva nascere un romanzo come “Uno, nessuno e centomila”.

 

Giovanni, annoverami ormai tra le tue lettrici assidue e spero di tornare presto a chiacchierare del tuo nuovo libro.

Questa tua risposta porta con sé ancora tante riflessioni, che ci porterebbero molto lontano, quindi con questa domanda “multipla” abbiamo finito. Sei stato prezioso, con il tuo libro, con la bellissima intervista a Fahrenheit con cui ho salutato i miei ragazzi negli ultimi giorni di scuola, con questa chiacchierata che ha infittito e ampliato i tanti nodi di riflessione e i tanti spunti di analisi del tuo diario, che spero circoli tra docenti, ma anche tra genitori e alunni, perché si possa davvero comprendere a cosa serve la scuola e ancor prima cosa si fa nella scuola.

scrittore, docente, saggista e organizzatore di eventi culturali a Bolzano.

Cara Giuditta, grazie per le domande, l’interesse e l’attenzione con cui hai letto il mio libro, sono contento che ti abbia suscitato tutte queste riflessioni.

 

Dopo tante parole, nel silenzio sceso tra di noi mi piace immaginare che io e Giovanni Accardo avremmo puntato lo sguardo ai monti che circondano Bolzano, continuando a pensare al sogno di rendere concreta “Un’altra scuola”.

Chiacchierando con… Giovanni Accardo
Tag: