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Il monastero era un enorme edificio intonacato di bianco che si armonizzava perfettamente con il paesaggio circostante. C’era un’atmosfera da tarda giornata settembrina piena di buoni odori e di luci accoglienti. Il prato si stendeva tra alti pini marittimi e olivi fino a perdersi nella curvatura della collina. Tutto era ordinatissimo e al limite della perfezione. C’erano ampi vasi di fiori che davano colore a ogni angolo dell’ambiente; c’erano sedie a dondolo e tavoli da giardino, tende parasole ornate di nastri e drappi avana. Più in basso si allargava uno spiazzo in cui erano allineati tre grossi fuoristrada scuri; poco più avanti un ragazzo di colore trasportava un cesto pieno di frutta.

Ci saremmo dovuti incontrare a “Contromondo” io e Giorgio Nisini, luogo ben noto a chi come me ha subito il fascino di “La lottatrice di sumo” (Fazi, 2015) e invito per chi non lo conoscesse a leggere il bel romanzo che lo descrive.

Sono rimasta colpita sin dalle prime pagine dalla scrittura di Giorgio Nisini, fluente (per usare un termine scolastico) ed elegante. Poi catturata dallo sguardo sulle donne, così ben descritte, e tutte diverse, evitando con raffinatezza ogni clichè. Infine completamente persa nella trama, intrigante senza essere ammiccante, intrecciata con grande sapienza ma senza supponenza. Un’intera giornata a seguire il filo della narrazione senza riuscire a staccarmene e stancarmene. Subito dopo “La lottatrice di Sumo” ho voluto mettere alla prova la forte impressione suscitata dalla lettura, leggendo il romanzo precedente, “La città di Adamo” (Fazi, 2011). Prova superata a pieni voti. Non è un narratore occasionale Giorgio Nisini, ma un grande romanziere.

La prima domanda mi pizzica la lingua dai primi capitoli del libro. “La lottatrice di sumo” è un titolo perfetto: il lettore si aspetta un personaggio o una metafora che riguarda la storia e invece trova che il riferimento del titolo è aqualcosa di concreto, tangibile e che il collegamento è molto più naturale di quanto potesse immaginare dalla copertina.

La lottatrice di sumo è un quadro. Centrale nella storia, intorno al quale ruota un mistero e un enigma che tiene avvinto il lettore. Un quadro che tu descrivi con ricchezza di particolari, tanto che sembra di vederlo e non solo immaginarlo. Ho persino cercato in rete illusa che potesse avere un riferimento preciso.

L’hai inventato di sana pianta oppure dietro si cela qualche modello che non sono riuscita a identificare? è il quadro l’immagine archetipa da cui nasce la tua storia? Sei un appassionato di pittura oppure il tuo interesse (nel romanzo sono descritti molti altri quadri, tutti con grande perizia) è legato solo a questo romanzo e alla storia che racconti?

La suggestione per il quadro della lottatrice mi è venuta da un’immagine di tutt’altro genere, che non aveva nulla a che vedere con l’universo figurativo. Non è stata neanche la prima immagine del libro, che ha avuto una gestazione molto lenta e a più riprese. Il tutto è nato a partire da un mio racconto scritto tanti anni fa, dove parlavo di due giovani innamorati che seppellivano un biglietto da leggere nel futuro. Era una storia che sentivo incompleta e che dovevo sviluppare. Pian piano si sono intrecciate altre storie e altre immagini.

Quanto ama le donne, Giorgio Nisini? Perché le figure femminili di “La lottatrice di sumo” sono straordinarie, con un fascino particolare, molto femminili ma tutte a loro modo carismatiche. Persino Flavia, la mamma di Olga, brilla di una certa luce, nonostante gli spigoli e i limiti con cui la rappresenti. Sono donne tutte diverse, piene, rilevate dalla scrittura, che si poggia sui dettagli, sugli sguardi, sugli abiti che diventano “correlativo oggettivo” per descrivere la loro indole ricca e preziosa.

Uno sguardo maschile, quello che le guarda, che rende ancora più affascinante la prospettiva da cui sono ammirate.

Questa che mi fai è una domanda insidiosa, qualsiasi risposta rischia di essere troppo banale o scontata. Amo le donne, ovviamente: non come il Bertrand Morane di Truffaut, né in maniera assoluta e incondizionata. Ma qui è in gioco l’universo donna in tutta la sua complessità, non una donna specifica; e questo universo mi affascina e mi turba, innesca in me sentimenti difficili da raccontare. Nell’universo donna c’è tutto quello che di più splendente ho visto nella mia vita: la madre, la figlia, l’amore, la sensualità, la sessualità, l’erotismo, la vacuità, la profondità, la trasgressione, il desiderio, il sogno di riscatto, la ribellione. In fondo c’è anche un parte di me, così come in ciascuno di noi ci sono parti maschili e femminili. Essendo uno scrittore, e credendo molto nella capacità conoscitiva della letteratura, le donne sono per me un luogo di esplorazione. Cerco di indagarlo e raccontarlo con la parola.

A tal punto indaghi con ricchezza e ricercatezza l’universo femminile che hai scritto le pagine più belle sull’amore omoerotico tra donne. Non svelo chi ne siano le protagoniste, lasciando al lettore il piacere della scoperta, che non giunge inattesa come se fosse una sorpresa e per questo è ancora più incisiva e suggestiva.

Tutta la tua narrazione è condotta su un filo sottilissimo di mistero e svelamento, che non calca mai sul sorprendente, ma che riesce a rendere il lettore partecipe dell’indagine, intesa in termini strettamente filosofici. Forse è questo l’elemento che più mi ha affascinata. Avresti potuto ammiccare al lettore, creare suspense, sbalordirlo con trovate ad effetto, invece segui un percorso di sobrietà narrativa, conduci il lettore e lo emozioni con la pacatezza e il procedere riflessivo del racconto.

Si potrebbe leggere come un “giallo” il tuo romanzo, ma all’interno di una tecnica originalissima, in cui il tuo passo narrativo sembra interessato più al dispiegarsi delle riflessioni sulla morte, sul tempo, sugli affetti, sulla mancanza e la perdita, la nostalgia e il desiderio di comunicazione, che non sulla volontà di sorprendere il lettore come comunque la tua storia poteva fare.

Che “genere” di romanzo è “La lottatrice di sumo”? c’è una linea di continuità con le tue opere precedenti, in particolare con “La città di Adamo”?

Il “genere” per definizione implica un incasellamento più o meno elastico in uno schema narrativo. Da questo punto di vista “La lottatrice di sumo” non appartiene in senso stretto a nessun genere; semmai subisce l’interferenza e il fascino di alcune narrazioni del passato, soprattutto Gautier (La morta innamorata), Boileau e Narcejac (La donna che visse due volte), Milo Milani (Fantasma d’amore). Potrei definirlo, recuperando un’osservazione che mi è stata fatta da un critico per “La città di Adamo”, un “giallo psicologico”, nel senso che il protagonista si propone come un detective di se stesso e del proprio passato. In tal senso c’è continuità tra i due romanzi, che insieme al primo (“La demolizione del Mammut”, Giulio Perrone 2006), compongono quella che io stesso ho definito trilogia dell’incertezza. Un’altra definizione che è stata utilizzata per i miei libri è “realismo metafisico”, dal momento che le mie storie mantengono una base di realtà, non scivolano nel fantastico e nel soprannaturale, ma ne percorrono pericolosamente il confine senza mai oltrepassarlo. La realtà fisica, insomma, è sempre vista nella prospettiva di una realtà metafisica che incombe attorno ad essa.

La demolizioni del mammut, Giorgio Nisini

Sì, è vero, non oltrepassano mai il confine della realtà, ma tra “La città di Adamo” e “La lottatrice di sumo” mi sembra di intravedere una crescente attenzione per il metafisico. Una linea di continuità è senza dubbio la comunicazione con chi non è più, legata all’incertezza nell’interpretare le risposte di tale messaggio. Questo è un elemento di grande fascino in “La lottatrice di sumo” in cui la comunicazione con l’aldilà è posta come concreta e reale, non solo possibile: non c’è nel romanzo una teoria precostituita, ma un’indagine vera e propria su cui al lettore è lasciata l’ultima parola.

Marcello di “La città di Adamo” cerca, invece, i messaggi concretamente e razionalmente tra foto, cartoline, lettere, presupponendo il mutismo da parte del padre defunto (Carica e ricca la pagina in cui Marcello si reca sulla tomba del padre, per sentirsi meno colpevole nell’aprire messaggi privati dei genitori che non ha il consenso di leggere), mentre Olga e Giovanni si trovano, scoperti e costernati con il loro razionalismo, di fronte a messaggi che provengono direttamente dal soprannaturale e che non mostrano di avere altra ragione o provenienza.

In entrambi i romanzi è il padre il depositario del segreto che più preme conoscere. Anche sul tema della paternità (presente con forza in entrambi i romanzi) e sulla figura del padre sembra che tra “La città di Adamo” e “La lottatrice di sumo” ci sia un percorso di maturazione e introspezione. Marcello di “La città di Adamo” si nega la paternità, per poi riscoprirla dopo l’incidente della moglie, ma ancora in forma nebulosa ed embrionale; Giovanni di “La lottatrice di sumo” è invece padre e ne indaga tutta la complessità.

Il padre di Marcello non ha mai manifestato al figlio la volontà di chiarirgli il suo segreto, mentre Golem, come ultimo gesto d’amore, vuole la figlia con sé per poterglielo svelare.

Padri di figli maschi in “La città di Adamo”, padri di figlie, sia Golem che Marcello, in “La lottatrice di sumo”. Cambia qualcosa questo dato o è causa in parte del mancato svelamento del segreto nel primo e della condivisione del mistero nel secondo con i propri figli? Nel senso che c’è una diversa implicazione per un uomo nell’essere padre di un figlio, in cui specchiarsi, o di una figlia, verso la quale notare alterità? È cambiato Giorgio Nisini o dietro a queste differenze di padri c’è solo una ragione narrativa? (Piccola banale personale curiosità, dovuta al fatto che mio marito per anni ha tentato il concorso notarile e lavora da sempre presso notai come collaboratore: perché in entrambi i romanzi ci sono figlie di notai? Ludovica è figlia di un notaio in “La città di Adamo” e Olga è nipote di un notaio per parte materna in “La lottatrice di sumo”. Solo una coincidenza o nasconde qualcosa?)

La scrittura di questi due libri ha coinciso con la nascita dei miei figli: c’è senz’altro un’attenzione particolare al tema della paternità, ma si tratta di un elemento biografico di fondo, che solo in parte interferisce con le necessità narrative della storia. Nella Città di Adamo partivo da una domanda molto specifica: quanto conosciamo davvero il passato dei nostri genitori e la nostra infanzia? Come possiamo sottoporre a verifica una notizia su nostro padre se non possiamo più parlare con lui? Mi interessava insomma riflettere sulle zone d’ombra del nostro passato, a differenza della Lottatrice di sumo, dove il tema della paternità ha un’incidenza diversa nell’economia globale della storia: qui è la possibilità di comunicare ad essere al centro della storia, non l’incomunicabilità. Per quanto riguarda le figlie dei notai è molto interessante quello che scrivi: è solo un caso, anche se non posso escludere che ci sia qualcosa di meno casuale. Ma non saprei dirti di più.

Anche se, Giorgio, il rapporto tra Olga e il padre Golem, fino a quando lui è in vita, sfiora il tema dell’incomunicabilità. Solo nel momento della morte i due si parlano veramente ed è allora che per Olga si apre una vera comunicazione con il padre. In questo sembra che in “La città di Adamo” l’ottica sia ribaltata. Marcello crede di avere un buon rapporto con il padre, nell’immagine del documentario da cui parte la sua indagine sono mano nella mano. Gli si affida al punto da sostituirlo nell’azienda. Con la morte del padre, al contrario di quanto avviene tra Olga e Golem, lui scopre un’immagine del genitore che non combacia con quella che ha sempre creduto, scopre persino una diversa identità, che è una trovata letteraria incredibile.

La ricchezza dei punti di vista nei tuoi romanzi è straordinaria, come la tua lucidità di pensatore che tutto contiene, perché tutto tenga. Nella trama di “La lottatrice di sumo”, in particolare, tutto tiene alla perfezione. Non una sbavatura, una maglia in cui il lettore possa intravedere il narratore che rammenda una piccola discrepanza, un’inverosimiglianza, un’accentuazione.

Come costruisce Giorgio Nisini le sue trame? Mi pare di capire che si parte da un’idea, una riflessione, un domanda, e poi? Come si arriva a una costruzione così articolata, sia sotto il profilo della narrazione che della speculazione filosofica e psicologica, come è quella di “La lottatrice di sumo”, ma anche di “La città di Adamo”? La soluzione all’indagine, nel caso di “La Lottatrice di sumo”, o l’insolubilità, come avviene invece in “La città di Adamo”, nascono con il mistero stesso o sono “inventate” (nel senso latino di invenio, trovare, ma più ancora di “venire incontro”) in un secondo momento? Lo sa già Giorgio Nisini come andrà a finire, o invece lo scopre mentre scrive?

Caro Giorgio, sui tuoi romanzi non si finirebbe mai di indagare, ma la precedente è la mia ultima domanda. Non mi resta che leggere il tuo primo romanzo e aspettare il nuovo! Perché mi puoi annoverare, ormai, tra le tue fan più assidue.

Sì, hai ragione, c’è un ribaltamento opposto nei due romanzi, anche se il tema dell’incomunicabilità resta centrale in entrambi, sebbene con approcci molto diversi tra loro. Per quanto riguarda la costruzione narrativa della storia, il meccanismo è abbastanza lungo e complesso. Ho dei tempi di scrittura piuttosto lenti, ogni mio romanzo richiede tra i 3/4 anni di gestazione. In genere c’è una fase in cui non scrivo nulla, ma immagino visivamente la storia: prendo appunti, ragiono sui personaggi, vedo molti film e leggo molti libri sui temi che mi interessano, ascolto musica, cucino, osservo i paesaggi attorno a me. È la fase che mi diverte di più, durante la quale “invento” la storia secondo l’accezione latina che suggerisci. Solo quando tutto è chiaro inizio a scrivere, anche se durante la stesura può succedere che alcune cose non funzionano e sono costretto a tagliarle o modificarle. Ci sono scene a cui sono molto affezionato e a cui ho dovuto rinunciare, così come dei personaggi che sono stati eliminati dal testo o ridotti di molto. Scrivere vuol dire anche saper cancellare.

Ti ringrazio molto Giuditta per questa chiacchierata, spero di conoscerti presto. Mi farai poi sapere cosa pensi del Mammut.

Quando ci incontreremo, Giorgio, avrai tre libri da autografarmi!

Chiacchierando con … Giorgio Nisini
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