Per passeggiare in città il consiglio dovrebbe essere la leggerezza, al contrario Igiaba Scego in Roma negata (Ediesse, 2014) chiede al lettore di attraversare le strade di Roma, prendendo sulle spalle il pesante fardello del colonialismo italiano. Si parte con un’assenza, quella della stele di Axum a Porta Capena, per poi passare al cinema Impero di Tor Pignattara, addentrarsi nel degrado che circonda la stele di Dogali, per poi approdare al Vittoriano e ricordare una retorica quanto superficiale, mostra sugli Ascari, che la dice lunga sullo sguardo persistente con cui gli italiani sono spinti e invogliati a osservare quel pezzo della loro storia.

Nelle bellissime foto di Rino Bianchi il volto dei luoghi si rifrange in quello delle persone in primo piano. La più bella e significativa è senza dubbio quella dei rifugiati politici, volutamente anonimi per rappresentare tutte le persone nella loro condizione, con alle spalle il Vittoriano. Bella la foto del Cinema Impero, a cui è stata affidata la copertina, credo soprattutto per la pregnanza lessicale della parola Impero, ma ancora più pregnante e preziosa la foto del Vittoriano, che a mio avviso, in copertina avrebbe reso più forte la stretta connessione tra testo e immagini. La copertina avrebbe urlato il messaggio deciso e preciso di cui la foto e la sua storia si fanno latrici.

 

La stele di Axun, con la sua complessa e lunga storia, si rende metafora perfetta dell’atteggiamento italiano, sia istituzionale che civile, nei confronti del passato coloniale. Il vuoto nella piazza, in cui per anni meschina e negletta la stele, bottino di guerra, ebbe il ruolo marginale di spartitraffico, è “un vuoto di memoria”. Con competenza storica e partecipazione sentimentale, passionalità e rigore Igiaba Scego scrostra dai luoghi il sedimento del tempo, rende visibile il passaggio della storia e la volontà dell’oblio.

Più ancora che da cittadina, è come insegnante che mi sono sentita chiamata in causa dalle pagine di Roma Negata. Sul colonialismo gli italiani hanno preferito una visione di comodo, improntata allo stereotipo di “Italiani, brava gente”. Contro questa visuale ristretta e superficiale, Igiaba Scego ci invita a fare i conti, scardinandola con accuratezza e tentando di costruire una visione nuova, basata non solo sugli studi storici, ma anche sulla forza e la necessità del presente.

Ho vissuto a Roma per vent’anni, ho amato e amo la città tanto da ritrovarmi interamente nelle parole di Scego:

Cammino per le strade trafficate della mia Roma Capoccia e il cuore, il mio piccolo stravagante cuore, istantaneamente si placa. Solo a Roma cammino bene. Ci apparteniamo io e lei. Ci amiamo, ci detestiamo, ci conosciamo, ci mischiamo. Io e Roma le eterne sorelle, le eterne amiche, le eterne complici. Io e Roma vecchie conoscenze. Insieme siamo un Essere nuovo, facciamo faville o crediamo di farle. 

Parigi è bella, New York briosa, Rio de Janeiro seducente. Però Roma è Roma, ha qualcosa di più e spesso anche qualcosa di meno. Roma il mio ombelico e quello del mondo. E forse chissà anche dell’intero universo. La mia Roma così inadeguata al presente, così totalmente imperfetta. Ormai è vecchia Roma. In Somalia l’avrebbero chiamata Ajuza. Roma Ajuza che non sa più nascondere i suoi anni. Le rughe antiche si mischiano al degrado. E gli acciacchi la tormentano da mattina a sera. Roma è tutta una sbavatura. Uno scarabocchio insensato che illumina d’immenso le nostre vite consumate. Roma con i suoi segreti e i suoi deliri inconfessabili. Roma che non mi ha mai detto la verità fino in fondo.

Ed è per questo amore viscerale e incondizionato che sfogliare Roma negata mi ha fatto male al cuore. Alla ricerca della verità sul passato coloniale nel Corno d’Africa, Igiaba Scego decide di diventare guida per le strade di Roma, additando e segnalando, con compostezza, talora con furore, tal’altra con commozione. Tanti i momenti in cui è difficile essere fieri della proprio identità, quella mutuata da stereotipi retorici e falsi, ma in molte pagine palpita il cuore insieme con quello della città che sa ritrovare se stessa, come a Montecitorio durante i funerali improvvisati per strada dei 369 eritrei morti nel canale di Sicilia il 3 ottobre 2013.

Riconoscere il legame stretto che ci unisce alla Libia, alla Somalia, all’Etiopia, all’Eritrea è idealmente l’appello più impegnativo e fondante che scaturisce dai racconti di Roma Negata. Solo ricostruendo questo legame, rinsaldandolo nella memoria, riconoscendolo nei luoghi e nella toponomastica (chi sono i Cinquecento della piazza antistante la stazione Termini?) potremmo finalmente ricordarci chi siamo e chi siamo stati. Riappropriandoci dei luoghi e dei segni, dei simboli e dei gesti con criticità e consapevolezza potremmo riscattare Roma, e fare in modo che non sia più negata – non solo negata ai migranti che di quella storia sono figli, ma negata a voi per primi, a voi che ci siete nati, che la abitate, che vi ci siete trasferiti, che l’avete scelta, come scrive Nadia Terranova, nella toccante presentazione al libro.

Allora sì che potremmo tornare a camminare tra le strade della città eterna, con uno zainetto alleggerito dalla verità, assottigliato dall’acribia dello sguardo sul passato, liberato dal fardello del non detto e della retorica stantia. Ed ecco che sfogliare Roma Negata fa bene al cuore, come suggerisce Nadia Terranova, e ci mostra il fascino vero della città, che non si nega al suo passato e di conseguenze si fa carico del suo presente.

Roma negata
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