Se la prima volta ho incontrato il Prof. Manacorda a Villa Sciarra, all’Istituto Italiano di Studi Germaniciquesta volta l’invito è a passare a salutarlo nella sua piccola casa piena di libri che si affaccia sul Tevere dal quarto piano e ha a sinistra il Ponte della musica e di fronte tutto il verde di Monte Mario.

Come prima cosa non posso trattenermi dal manifestargli il mio entusiasmo per Il cargo giapponese (Voland, 2014), che chiaramente trapela dalla lettura che ho postato sul sito, e ringraziarlo della disponibilità che sempre mi mostra, e che ogni volta mi onora.

Comincio con la prima domanda.

In Delitto a Villa Ada lei sceglie di raccontare la vicenda delittuosa attraverso diversi punti di vista. Il commissario Sperandio era uno di questi. Si poteva intravedere una simpatia dello scrittore per lui, ma nessun elemento preponderante rispetto agli altri personaggi.

Era un bluff per noi lettori? Perché ritrovarlo protagonista di Il cargo giapponese è stata una grande, graditissima sorpresa. Oppure si è trattato di una sorpresa anche per lei raccontare da protagonista il fascinoso Sperandio?

Come sempre mi accade, non avevo programmato di ripescare Sperandio.  Evidentemente il personaggio mi era rimasto dentro proprio perché apreDelitto a Villa Ada come ne fosse il protagonista indiscusso – evidentemente rivendicava il ruolo di protagonista. In realtà i personaggi vivono di vita propria, e decidono loro quello che vogliono fare. Questa è una cosa che ho imparato scrivendo per il teatro parecchi anni fa. Sperandio è ancora protagonista del libro che sto scrivendo, che è il seguito del Cargo giapponese. Poi basta Sperandio e, spero, basta poesia dentro la narrativa. Alla fine avrò scritto una specie di trilogia della poesia legata al nome di Sperandio.

Non ce lo dica così, che ci lascerà orfani di Sperandio dopo soli tre libri, mentre io gli auguravo una lunga vita, in giro per le librerie d’Italia.

Qual è il fascino della trilogia per uno scrittore? Perché non una tetralogia o una pentalogia? Forse è la suggestione della tragedia greca, con i suoi tre drammi legati come raccontano le fonti?

Non ho mai pensato al fascino della trilogia. Ma non si dice che 3 è il numero perfetto? Sarà per quello, o semplicemente – per ciò che mi riguarda – che Sperandio ha finito la sua carica, la sua energia come personaggio? Se questo è accaduto al terzo romanzo, è solo un caso.

Se continua a crescere proporzionalmente la quantità di oro come è avvenuto nei primi due romanzi, con il terzo saremo di fronte a un tesoro immenso. Ho il sentore che il motivo dell’oro nasconda nei suoi anfratti un significato determinato e profondo. In Delitto a Villa Ada la macchina da scrivere tutta d’oro mi era sembrato nascondesse dietro e dentro di sé una metafora della poesia, cosa invece cela l’ingente quantità d’oro nascosta in Il cargo giapponese?

C’è qualche legame, simbolico o generico, tra gli oggetti aurei dei due romanzi?

Lei mi fa delle domande cui non ho risposta. Quanto all’oro, davvero non so che dire, probabilmente si contrappone alla poesia come valore che muove il mondo. D’altronde che la poesia non dà pane lo sapevano anche i romani. L’oro ha mosso l’assassino di Villa Ada e l’oro fa muovere il cargo per tutti i mari. L’unica cosa sicura è che mi sono ritrovato l’oro anche nel Cargo giapponese senza averlo programmato – il che autorizza tutte le letture simboliche che il lettore vuole o vede. Potrei aggiungere che il cargo è un oggetto “ricchissimo” ma vuoto e “morto”, incagliato com’è nel porto di Cagliari. Allora forse la vita, il valore vero è altrove. Nella poesia che è in grado di dare senso alla vita? Se così è, l’oro vero (il vero valore) è la poesia. Forse nascosto c’è questo conflitto sul tema del valore, ovvero sul senso dell’esistenza.

Se l’oro è il movente degli omicidi sia in Delitto a Villa Ada che in Il cargo giapponese, gli assassini in entrambi i romanzi mostrano una efferata raffinatezza nel compiere i delitti. L’assassino di Il cargo giapponese (ri)scrive con i corpi delle sue vittime una poesia, di cui si propone una sua nota critica in calce al romanzo.

Non conoscevo la poesia di Ingeborg Bachmann che è al centro del romanzo, mentre l’idea del cargo, sin dal titolo, mi aveva fatto pensare a Tulipani di Sylvia Plath, “a thirty-year-old cargo boat”.

Chi viene prima la poesia di Ingeborg Bachmann o la serie di delitti del Fantasma giapponese? è la poesia che le ha ispirato un uso delittuoso dei versi, oppure la modalità dei delitti le ha riportato alla mente la poesia?

Non sono mai semplici nella loro messa in scena i delitti compiuti nei due romanzi, rituale quello di Morte a Villa Ada ed efferatamente raffinati quelli del Cargo. Forse sbaglio, professore, ma nelle sue pagine tendo sempre a vedere una seconda lettura oltre a quella superficiale del plot giallo, che pure risulta avvincente. Questa cura teatrale dei dettagli con i quali l’assassino presenta la sua vittima, cosa richiama?

E’ stata “l’idea narrativa di scrivere con i corpi delle vittime versi poetici che mi ha portato a scegliere la poesia di Bachmann”. Lentamente ho capito che volevo raccontare la potenza, e la violenza, della poesia, il suo incidere sulla vita, il suo essere la vita. Se è vero, come penso, che la poesia è la massima espressione del mondo arcaico che portiamo dentro e che, senza che ce ne accorgiamo, fa la nostra vita. Non c’è verso, per astratto che sembri (se una poesia è tale) che non esprima o “metta in scena” quello che l’umanità è, nel bene e nel male. La metafora, almeno per me, è questa. Se non ci fosse quella che Lei chiama “una seconda lettura”, non si tratterebbe di letteratura (o poesia) ma solo di letteratura di consumo o di intrattenimento. Sono quindi molto contento che lei veda (come spero altri lettori) il secondo livello, ma anche il terzo, il quarto, il quinto… Livelli di cui l’autore, come è giusto che sia, non è sempre consapevole. D’altronde anche le mie letture-interpretazioni dei miei libri sono sempre a posteriori.

Ah Prof. Manacorda, dal mio modesto punto di vista, nessuno scrive letteratura come lei, coniugandola nella serie di Sperandio con l’intrattenimento e il ludico.

Straordinario personaggio di Il cargo giapponese è Scotch, il cane a cui il commissario rivolge confidenze e riflessioni. Figura letteraria per eccellenza, in cui si sommano e confondono tante reminiscenze, a partire da Argo, da lei espressamente citato. Ho trovato raffinatissimo da parte sua variare la coppia stereotipata commissario – sottoposto che gli fa da spalla in modo così letterario e innovativo. Sbaglio o non esiste nella letteratura di genere un’accoppiata simile? L’ha attinta dalla vita o dalla letteratura? Esiste o è esistito Scotch anche per Manacorda?

La reazione di Sperandio all’uccisione del cane mi ha ricordato Achille, addolorato e disperato per la morte di Patroclo, e proprio come Achille sarà il desiderio di vendicare la morte dell’essere amato che spinge il commissario a scendere nuovamente in campo e riprendere le indagini sul cargo. Cosa l’ha spinta ad uccidere Scotch?

Grazie, Lei è davvero molto carina con me, e soprattutto ha capito esattamente cosa vorrei fare: vera letteratura ma anche vera narrativa senza annoiare. Nel merito: non ho pensato ad Achille e Patroclo, né pensavo ad una coppia commissario-sottoposto. Il fatto è che Scotch è realmente esistito, e si chiamava proprio così. Mi rendo conto che la butto pesantemente sull’autobiografico, ma Scotch non era neppure il mio cane. Era il libero cane di un’amica dove avevamo la casa di campagna. Quando noi arrivavamo ci sentiva a chilometri di distanza e a un certo punto appariva accanto alla macchina e non ci lasciava sia che stessimo per il fine settimana sia che stessimo per tutta l’estate. Ci ha scelto o, per essere più precisi, mi ha scelto. Poi è scomparso e nessuno sa che fine ha fatto. Forse questo spiega perché anche nel libro muore – o forse muore solo per ragioni letterarie: è il momento in cui appare la Yakuza, una necessaria anticipazione narrativa. Forse le due cose insieme. Scotch è funzionale a Sperandio, serve a raccontare il personaggio e a farlo crescere – ma anche ad avvicinarlo al mondo animale. Non dimentichiamo che c’è un punto in cui Sperandio “regredisce” fino all’animalità – che è anche il momento dell’intuizione di cosa ci può essere nel cargo. Scotch in qualche modo è l’anima di Sperandio – il suo essere un poeta, ovvero essere fuori  dai circuiti della razionalità, lo fa somigliare al suo amato cane che, in qualche modo, forse, è il suo doppio. Le sembrerà strano, ma non sono un lettore della letteratura poliziesca. In generale mi annoia. A parte i classici, ovviamente. Letti a suo tempo, ovvero molti anni fa. La cosa che mi sorprende nel Cargo giapponese, non è la letteratura “gialla”, ma la presenza (l’ho capito improvvisamente questa estate mentre scrivevo il seguito) di Salgari e Verne, letti in tenera età. Pensi ai pirati, per esempio.

Si sentiva, prof. Manacorda, che in Scotch c’era un sentimento vero.

Certo che mi sembra strano che non sia un lettore di gialli e mi incuriosisce molto conoscere per quali vie è arrivato ad essere uno scrittore di due stupefacenti libri gialli. Anche se, dal mio punto di vista di lettrice appassionata del genere, i suoi libri mi hanno conquistata proprio per il continuo derogare dai cliché e dagli stereotipi che rendono riconoscibile la produzione “gialla”.

Salgari e Verne. Certo. La conclusione di Il cargo giapponese (che non mi azzardo a rivelare) fa pensare che la loro presenza aumenterà nel prosieguo. E Bjorn Larsson, Prof. Manacorda, dove lo mettiamo? In che rapporti è con Sperandio?

Me  lo sono chiesto anche io, e la risposta che ho dato è che il giallo è la versione moderna della tragedia, con la differenza che il morto c’è subito. E il problema si pone dopo. Fatte non foste a viver come bruti, ma bruti siete. In più c’è il problema (eminentemente moderno) della comprensione di ciò che è accaduto, ovvero della brutalità del delitto. Non è più ovvio che siamo dei bruti, e quindi il giallo tenta una razionalizzazione, così il “disordine” torna “ordine”. Ma questo, non per caso, nei miei libri non avviene. Niente ordine finale. E’ vero, la presenza di Salgari e Verne aumenterà. O almeno così mi pare o può essere. Larsson l’ho citato esplicitamente. Ma non sta in nessun rapporto con Sperandio perché Larsson non sa niente di poesia, il suo poeta non è credibile, la poesia è appiccicata.

Per concludere, una piccola curiosità personale. Sperandio nelle prime pagine del romanzo entra in una libreria di Cagliari, che lei rende ben riconoscibile. Per me che sono una sostenitrice delle librerie indipendenti e che conosco “virtualmente” il libraio in questione un vero spasso. Come è nata l’idea di questo bellissimo omaggio?

L’omaggio alla libreria nasce dal fatto che l’unico giorno che sono stato a Cagliari era per presentare il libro proprio lì. Tra l’altro non c’era quasi nessuno perché Bersani, allora segretario del PD, teneva in incontro nel vicino teatro, e tutto era blindato.

Per non essere invadente, tengo a freno la mia curiosità che mi porterebbe a continuare all’infinito a chiacchierare con il Prof. Manacorda, ma l’ospite deve sempre sapere quando è il momento di togliere il disturbo, reale o virtuale che sia, e di passare ai saluti (anche quando avvengono per mail e non con una concreta stretta di mano, come sarebbe avvenuto se fossi davvero a casa Manacorda). La consolazione è che a breve leggerò la nuova avventura di Sperandio e chissà che l’autore non si faccia attrarre dal fascino di una tetralogia, o pentalogia o “ennelogia”, come noi lettori segretamente speriamo.

Nel salutarLa e nel ringraziarLa, Le posso anticipare che il libro della prossima primavera non sarà il seguito del Cargo giapponese – per il quale ho bisogno di tempo – ma una cosa del tutto diversa.

Rimane il piacere grande di leggere!

Chiacchierando (di nuovo) con … Giorgio Manacorda
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