A volte mi capita con i libri, sin dalle prime pagine, di chiedermi: – Ma dove vuole andare a parare l’autore?

Con La maestra dei colori di Aimee Bender (Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, minimum fax, 2014) me lo sono chiesta sin dai primi racconti. La trama spiazzante dei primi (eccezionale l’ordinamento con cui sono disposti) produce una malia, con quel misto di tremore e sbalordimento che doveva essere di Ulisse legato all’albero maestro per ascoltare il canto delle sirene. Ammalia e seduce Aimee Bender e incatena all’albero maestro della sua scrittura.

Quasi tutti i racconti nascondono al loro interno una chiave favolistica, che diviene scoperta e visibile nella terza parte della raccolta.

Uno dei miei tic da lettrice è quello di cercare un bandolo della matassa nelle raccolte di racconti, un disegno ordinatore, un filo rosso che motivi la scelta e la presenza del singolo racconto nell’insieme. Forse la mia è una lettura tradizionale, mediata dall’essere più una lettrice di romanzi che non di racconti, ma confesso che le raccolte mi entusiasmano quando più al loro interno si scopra un intento unitario e complessivo.

In La maestra dei colori, a mio avviso, l’intento unitario c’è ed è non solo trasparente pur se velato, ma soprattutto felicissimo. La riscrittura, a volte in chiave contemporanea, tal’altra in chiave tradizionale, di fiabe e favole, cominciando con il libro per antonomasia che è la Bibbia. Come intendere altrimenti Senzamela, il racconto che apre la raccolta?

Una riscrittura che ha il pregio accattivante e intrepido di innestare sul tema comune uno sguardo lancinante del presente, una faglia psicologica, un terremoto ottico, che ne scardina i riferimenti abituali e li proietta in una luce innovativa, ricca di sfumature e complessa di significato.

La maestra dei colori non casualmente è il racconto che dà il titolo alla raccolta già nell’originale. In esso è chiarito il gioco di riscrittura, ponendosi come un prequel della nota fiaba Pelle d’asino. Chi, nell’ascoltare la fiaba non si è chiesto ripetutamente come fossero fatti questi vestiti meravigliosi, con cui la figlia cercava di procrastinare le nozze con il proprio padre. Aimee Bender irretisce sia con il tono favolistico della scrittura che con lo sguardo limpido da moralismi con cui costruisce il personaggio della maestra dei colori. Il racconto diventa così un piccolo gioiello di introspezione e di maturazione della protagonista.

Tanto più il tema sembra abusato, quanto più la scrittrice americana mostra il suo estro ed eccentricità. Un piccolo capolavoro spiazzante nell’ottica capovolta è Il falso nazista. Un uomo che, contro la possibilità anagrafica, crede di essere stato un efferato gerarca non processato a Norimberga. Un modo straordinario di raccontare il dramma nazista, da chi non ne è stato testimone e quindi ha il doveroso compito di ricordare, ma non dall’ottica “privilegiata” di testimoniare.

Un altro gioiello della raccolta è Il dottore e la rabbina, che potrebbe essere una versione contemporanea delle parabole evangeliche, con lo strabiliante slittamento nel mondo ebraico americano.

Non mancano racconti più scialbi, come Una variazione (in cui, per me, è scattato il confronto con Uno, nessuno, centomila) o Un sabato pomeriggio, inevitabile in una collana in cui l’opacità delle perle seppure preziose è accostata alla brillantezza dei diamanti.

Aimee Bender è una sirena, dal canto morbido e sensuale, ma anche feroce e crudele. Una scrittura che sa toccare tutte le corde, dai toni più aspri a quelli più dolci e che riesce ad ammaliare sia per stile che per temi.

La maestra dei colori
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