Un romanzo sinestetico, di cui protagonista assoluta è la città di Palermo con profumi, colori, sapori, salsedine, tic e vezzi, per arrivare ai riti pagani dell’antica dea Tanit.

Riflettè che poche città al mondo possiedono ben due riserve naturali entro il loro territorio, ma se avesse fatto notare tanta bellezza a certi suoi concittadini, ne avrebbe ottenuto solo una delle tante esclamazioni di menefreghismo, tipo “Sì, bello bello, accussì bello ca macàri siddìa!”

la sua città gli ricordava spesso le parole di Gesù nel vangelo di Matteo, “Non gettate le perle davanti ai porci”, ma era una vecchia storia per cui aveva smesso di dolersi.

Magari, prima o poi, Palermo sarebbe cambiata.

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La vegetazione mediterranea non si arrende mai, è come la vita. Sbuca da ogni anfratto, trova spazi tra gli scogli e le pietre, si arrabatta per esistere e trovare la luce e poi riveste di colori smaglianti il paesaggio. A seconda delle stagioni lì, tra le agavi, le palme nane e le euphorbie, crescevano mille specie endemiche, erbe profumate, rarità botaniche e fiori come gladioli, asfodeli e orchidee.

Insieme al sentore di salsedine delle onde ancora vivaci per il recente temporale, tutti quei profumi lo mandavano in estasi. Trovò dei massi tondeggianti sui quali sedersi e fissò la particolare formazione che circondava la parete di scogli a pelo d’acqua sotto di lui, il raro marciapiede a vermetidi.

[…]

Terio spinse lo sguardo oltre il promontorio, verso l’Isola delle femmine. Il volgere del tramonto la trafiggeva di rosso, mentre le onde che s’infrangevano sul suo perimetro sembravano nuvole che la tenevano sospesa sulla distesa blu. Stava facendosi notte. L’acqua del mare … Tanit signora dell’acqua… l’elemento acqua che tornava in tutta quella storia… l’acqua è anche il grembo materno in cui veniamo nutriti appena arrivati al mondo, quindi è l’amore, il più grande degli amori terreni.

Sentì il richiamo di un rapace che planava dall’alto del monte dietro di lui. Gal, la radice del nome di Capo Gallo, significava monte per i punici.

Un romanzo corale e colorato, Acquasanta di Valentina Gebbia (Leima Edizioni, 2013). Non solo perché i protagonisti sono un’intera strampalata famiglia, i Mangiaracina: la madre Assunta, i fratelli Fana e Terio e il cugino Nofrio. Ma anche perché intorno a loro si muove una variegata e multiforme umanità, spesso sbalzata con toni accesi e caricaturali. Il romanzo, ironico e lieve, si muove su due piani che si intersecano con vivacità: le riprese di un film in costume sui tempi d’oro di Palermo, a cui collabora Fana, e le indagini per la morte di un disabile, amico di Terio. Da collante i riti della dea punica Tanit, richiamati in una scena del film, protettrice degli ammalati, degli storpi e dei nati prematuri.

A questi due temi principali si aggiunge il trasloco della famiglia dall’appartamento di Borgo Vecchio in una graziosa palazzina con annesso giardino nella zona dell’Acquasanta. La casa, o per meglio dire il giardino, nasconde un segreto, svelato con esiti spiritosi ed esilaranti, che cela nella realtà un ennesimo omaggio alla città di Palermo e alle persone speciali che l’hanno abitata.

Valentina Gebbia sa modulare i toni del racconto, da quelli meditativi, legati a Terio, a quelli stralunati di Fana e popolareschi di Assunta, fino al divertimento sottile e all’amore spassionato con cui sono descritti attori e comparse del film, come anche uomini e donne incontrati per strada, in fila, in autobus. Un romanzo che pulsa di vita, che strattona il lettore da una parte e dall’altra come un bimbo birichino, e che simultaneamente sa regalare momenti di riflessione, intrecciati con la descrizione del paesaggio palermitano, barocco struggente vibrante.

Con la famiglia Mangiaracina (protagonista di tre precedenti romanzi editi da E/O) ci si sente a casa. Si fa subito amicizia. Si prova forte il desiderio di essere invitati a uno qualsiasi dei loro succulenti pranzi:

Sua madre stava sfornando una profumatissima rianàta e, come amava fare sin da quando erano bambini, descriveva ingredienti e procedimento, in quel caso alla vicina Claruccia. L’ascoltò senza farsi vedere, nascosto dietro l’ingresso della cucina.

Dopo avere immischiato alla farina di grano duro il lievito di birra e un pochino di acqua tiepida, la devi lavorare fino a quando la pasta diventa morbida e a tipo elastico. Metti poco olio di oliva, meglio quello buono di campagna, e fai una palla che devi fare riposare coperta da un tovagliolo. Poi la spiani con le mani bene bene sulla teglia e ci metti sopra pomodoro senza pelle a pezzetti, caciocavallo grattugiato, aglio piccolo piccolo, acciughe, olio sale e pepe e, sopra sopra, origano a tempesta. Sennò perchè si chiama arriganàta?”, e rise soddisfatta, mentre tagliava grossi rettangoli dall’odore sublime.

La sentite anche voi un’irresistibile acquolina? Ma non lasciamoci distrarre. Un paraplegico è stato ucciso barbaramente nella sua abitazione. Tutti i sospetti cadono sulla sorella, l’unica che ha un movente: la sua vita accanto al fratello era un inferno. Compito di Terio, amico della presunta assassina, è fare chiarezza nel mistero, coadiuvato dalla strampalata banda familiare. Tra un pettegolezzo, un avvertimento da una sensitiva amica della madre, la vasta e preziosa cultura di Terio, i voli arditi della fantasia di Fana, la collaborazione del cugino, brigadiere capo, le intuizioni della vedova Mangiaracina e i suggerimenti dedotti dalla sceneggiatura del film, l’eterogenea compagnia risolve il mistero e scongiura un’altra terribile disgrazia. Lo sguardo della scrittrice si poggia con umanità e partecipazione anche sul colpevole, toccando con sottigliezza i drammi umani ed esistenziali, senza retorica e con semplicità.

Un romanzo genuino e fresco, come i piatti, indimenticabili, della signora Assunta.

Acquasanta
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