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Il titolo, L’uomo di amekessu, così anche nell’originale francese (Jean Clauzel, traduzione di Daniele Petruccioli, L’asino d’oro 2013) rispecchia fedelmente il fascino esotico dell’amore, incontrastato nonostante i contrasti, di Paul, funzionario governativo francese nella zona di Kidal, in Mali, e una bellissima donna tuareg, dal carattere forte e volitivo, Lawa.

Ma amekessu, e il solo nome è già gravido di promesse, è anche la stagione in cui, pur nell’estrema aridità e nella penuria più impetuosa, si sente la prima pioggia ormai vicina, seguita poi da altre che marcano il tempo della crescita dell’erba verde e fresca, delle pozze d’acqua, dei bagagli pronti e delle famiglie in marcia verso acque in superficie e pascoli abbondanti, il tempo della fine degli abbeveratoi che ancora ieri usuravano le mano e spezzavano le reni, tempo di legno pieni di latte, di formaggi a seccare sui colatoi, dei panciuti orci in cuoio ricolmi di burro, degli animali finalmente in forze, di nuove nascite tra le greggi.

Nel tempo di amekessu ognuno guarda il cielo per scoprire le prime nuvole, ancora in forma di sottili filamenti bianchi e isolati, che annunciano le precipitazioni da cui il suolo sarà fecondato. Ognuno annusa l’aria per sentire un vento appena più fresco ma già carico di umidità, con un nome dolcissimo, come accarezzato dalle labbra di chi lo nomina: elehe. Questo vento annuncia l’arrivo a nord, a sud, a est o a ovest, della pioggia e la fine della stagione della fatica e della fame.

L’ottica maschile e coloniale di Paul, dietro cui con probabilità si nasconde quella di Jean Clauzel che ha vissuto per quindici anni nelle regioni sahariane e presahariane, nel porre un limite all’infinità degli spazi africani, ha il dono di semplificare e di rendere meno complessi i temi trattati, dall’atteggiamento della Francia nei confronti della colonia, alla responsabilità di aver ceduto il potere ai “neri” che abitavano la regione con la drammatica conseguenza di una guerra fratricida che dura ancora adesso, alle sfumature delle relazioni amorose e non solo.

Paul ama la terra africana, ammaliato dalla scabrosità e dalla forza, ha un vivo interesse per la cultura tuareg in cui cerca, per quanto concessogli dal suo ruolo, di integrarsi e di conoscerne riti e tradizioni.

Era gennaio, nel pieno della stagione fredda. Le braci del fuoco presso il quale Paul si era sdraiato erano spente, e dopo un primo sonno il freddo della notte lo svegliò. Sporse la testa fuori dalle coperte e dovette trattenere un grido davanti allo spettacolo della volta celeste. Mai aveva visto tante stelle, né così diverse in grandezza e luminosità. Sembrava di poterle toccare sollevandosi appena un po’ da terra. Si svegliò varie volte quella notte e rimase soggiogato dallo stesso incantesimo. Solo la dislocazione delle stelle in cielo e delle lontane costellazioni cambiava di ora in ora. Lo splendore, la magnificenza dell’illuminazione celeste restava immutata. Poco prima dell’alba apparve una falce di luna calante, come una guardia venuta per mettere fine alla festa, e una dopo l’altra le stelle si spensero davanti al pallore banale del giorno.

Paul non rivide mai – o si persuase di non aver mai rivisto – un cielo stellato di quella intensità, e “la notte d’In Tebduq” si aggiunse per lui al fascino irresistibile e misterioso del Tegharghar.

La storia d’amore con Lawa è il portato del fascino che ha su di lui la cultura nomade, ma sottolinea anche le differenze e le contraddizioni con la visione europea del matrimonio, dei figli, della carriera. L’amore per la terra africana, con i suoi spazi sterminati e i paesaggi multiformi, è l’emblema del desiderio bruciante non solo di conoscere l’altro, ma anche di non fermarsi, di non mettere radici. Kidal rappresenta nella vita di Paul la giovinezza, l’ardore, le velleità e i sogni, l’essere straniero e ospite, pur sentendosi parte del luogo e di chi lo abita. Lawa rappresenta questa libertà estrema, contraddittoria al suo interno, ma ricca di passione e di trasporto.

Anni di vita insieme, di abbracci, scherzi e parole, separazioni, riunioni, conoscenza reciproca, persino amore inconfessato non erano riusciti a colmare il baratro da cui fin dall’inizio erano divisi. Per colpa di una decisione presa nella patria di lui, si trovavano all’improvviso rigettati nella separazione dell’inizio, il governante straniero e la governata tuareg, al loro punto di partenza, a quella sera quando, di ritorno dai pozzi, lei era passata davanti a Suna e a un francese sconosciuto.

Clauzel tocca corde sensibili nel raccontare la relazione tra il francese e la donna africana nel suo mutare, arricchirsi, impreziosirsi e approfondirsi. Con uno stile secco e razionale, indaga le pieghe più recondite della passione, contestualizzandola nelle diverse culture di appartenenza.

Da più di un anno, ormai, formava con Lawa una coppia certo discontinua, ma pur sempre una coppia. Gli andirivieni di lei tra la residenza e l’accampamento di Sory la mantenevano in una situazione ibrida, da una parte sposata a uno straniero in un ambiente non familiare, dall’altra praticamente libera in mezzo ai suoi e alla famiglia. Anche quando si trovavano entrambi alla base amministrativa, i loro rapporti erano limitati nel tempo. Questa vita di coppia episodica e parziale non permetteva a Lawa di prendere parte a modi di vivere francesi, ma in compenso aiutava Paul a immergersi nella vita dei tuareg. Al di fuori della famiglia di lui, di cui Lawa era curiosa, non accennavano praticamente mai alla sua vita in Francia: studi, amicizie, letture, politica. I discorsi tra loro restavano ancorati agli avvenimenti quotidiani, o eccezionali, dell’Adagh, con le insistenze di lei a scalfire spesso su questo argomento il muro che Paul avrebbe voluto erigere tra lavoro e vita privata.

La desiderava, aveva bisogno di lei. Era felice accanto a quel corpo di cui non si stancava, scoperto e posseduto a ogni ritorno da una tournèe con lo stesso piacere della prima sera. Era felice di saperla sua, la voleva vicina, presente. Gli piaceva sentirla parlare, vederla camminare o sedersi, sistemare un lembo del velo, togliere con un buffetto la polvere dagli abiti, buttare indietro la pesante chiave di ferro lavorato che manteneva l’estremità del velo, prendere o deporre un oggetto con gesti aggraziati e un poco languidi. Gli piaceva il suo carattere indipendente e la fierezza tipica del suo popolo, in lei davvero consustanziale. A volte si chiedeva se non fosse amore. Avrebbe voluto andare oltre la felice intesa dei corpi. Si interrogava spesso sui sentimenti di Lawa nei suoi confronti.

Quando dopo molti anni, Paul trova di coraggio di staccarsi dalle condizioni borghesi e carrieristiche che hanno segnato la sua nuova vita in Francia, e ritorna in Africa, la regione di Kidal, in preda a una seconda violenta e organizzata insurrezione tuareg contro le forze governative del Mali, ha per lui un richiamo fortissimo, sentimentale e personale. Nella tenda di Lawa ritrova una parte importante e mai sopita della sua identità, ma deve anche fare i conti con il tempo, che scorre inesorabile e non torna indietro, ma lascia tracce importanti di sé, nonostante la distanza e il silenzio. Un tempo circolare, che però nello scorrere muta i suoi contorni, lasciando intatti i sentimenti, così che le ultime parole di Lawa saranno “Io non ti avevo dimenticato”.

Con un brivido sottile di commozione il libro si chiude nel dettaglio della stagione che aveva segnato il loro incontro.

Nel cielo di amekessu, per ironia, ricordo o commiato, apparvero le prime nuvole bianche ad annunciare la pioggia.

L’uomo di amekessu
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