Nel tempo di mezzo                  

Lì era come trovarsi in un tempo sospeso a metà, nel tempo di mezzo, non moderni, non antichi, ma sensibili, esposti al contagio. Era in quel territorio sospeso che si doveva inventare un senso, che si doveva immaginare una prospettiva.

Se con Stirpe Marcello Fois aveva raccontato i tempi antichi, sul finire dell’Ottocento, quando Angelo Michele e Mercede avevano unito i loro destini di “sconosciuti” e dato vita alla loro genealogia, con Nel tempo di mezzo (Einaudi, 2012) la famiglia smembrata e falcidiata dalle disgrazie e dai lutti, trova un bandolo, un nuovo inizio al filo della stirpe che aveva creduto irrimediabilmente perduto. Il figlio, eroe della Prima Guerra Mondiale, Luigi Ippolito aveva generato un Chironi, Vincenzo, che ormai grande, decide di rinsaldare il legame con la terra e la famiglia paterna, dando inizio a una vera e propria Telemachia. La prima parte del romanzo, con suggestivi e visibili riecheggiamenti omerici, da Telemaco a Ulisse a Ettore, racconta lo sbarco e il tragitto in una terra lussureggiante e brulla di Vincenzo Chironi alla volta di Nùoro. Un nostos che rappresenta anche un viaggio interiore e un riconoscere le proprie ignote radici, tra l’impazienza e il timore.

Ad accoglierlo tra la sorpresa e la meraviglia, il nonno Michele Angelo e la zia Marianna. Per loro Vincenzo è la speranza che rinasce. Il tempo che riprende a scorrere. La famiglia che si ricostituisce. Ma Vincenzo se da una parte alimenta questa rinascita con la riapertura dell’officina di fabbro che il nonno aveva chiuso alla morte di Gavino, il figlio che doveva rappresentare la continuità professionale, dall’altra tradisce questa speranza nella difficoltà di continuare la stirpe dei Chironi.

I Chironi hanno sulle loro spalle un marchio di tragicità ineludibile. Il benessere economico che ha sempre arriso loro si paga con privazioni affettive e lutti. Toccherà anche a Vincenzo, uomo stretto nel tempo di mezzo, sospeso tra l’arcaicità del mondo del nonno e della zia e la modernità rappresentata da Cecilia, la bellissima e fatale donna di cui si innamora al primo sguardo.

Quello tra Vincenzo e Cecilia è un amore da romanzo d’appendice, un amore che sfida le convenzioni, ma che rimane intrappolato in velleità tradite e in amarezze che il sentimento non riesce a sublimare. Ma nello stesso tempo concederà ai Chironi, forse con un’eccessiva meccanicità da Ringcomposition, di continuare la litania della discendenza, come in un testo sacro.

Lo stile di Fois è la felicità del romanzo, sia nella descrizione di una natura atavica, ancestrale, crudele nella sua bellezza, biblica nei suoi pericoli, e omerica nelle sue scene; sia nelle metafore che accrescono e moltiplicano lo spazio narrativo, che scavano nell’introspezione e nell’inquadramento dei personaggi, che rendono prismatici gli eventi e le sensazioni che da essi derivano.

Come già in Stirpe la scrittura di Fois necessita di una lettura lenta, rimasticata, sillabata per poter cogliere tutte le sfumature, le sottigliezze, la ricchezza che rendono i romanzi dello scrittore sardo particolari e pieni.

Stirpe
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