Voce senza dubbio insolita e nuova nel panorama degli esordi italiani, Viola Di Grado, giovane catanese trapiantata a Londra, dopo gli studi torinesi in Lingue Orientali, sprovincializza la nostra letteratura contemporanea con un piccolo, ma denso romanzo, carnale corposo difficile e doloroso: Settanta acrilico trenta lana (Edizioni E/O, poi ripubblicata da La nave di Teseo). Brillante, originale, molto coinvolgente il tema della parola e della lingua, intesa sia come organo fisiologico che nel senso traslato di linguaggio e comunicazione. Una storia tormentata, di destini segnati dal trauma e dalla bruttezza, cercata voluta autoinflitta e lesionista. Una storia senza lieto fine, ma in cui la bellezza viene annientata senza remore e non rappresenta né una meta né una liberazione. Sconvolgente lo stile: metafore originali e non abusate che donano all’espressione linguistica e alle stesse vicende un denso valore esistenziale, una cifra paradigmatica, una profonda interiorità e nello stesso tempo distanzia il lettore, che non si rispecchia né si riconosce in una forma di dolore molto particolare e individuale per come è vissuta e rappresentata, pur coinvolgendolo emotivamente in maniera violenta e aggressiva.

Potrebbe ricordare Giordano con La solitudine dei numeri primi, per certi temi e un certo modo di infliggersi il dolore e la sofferenza, ma la forte differenza stilistica e soprattutto il racconto in prima persona della Di Grado, con un’ottica che in molti casi il lettore percepisce come straniante ed estraniata, conferiscono a Settanta acrilico trenta lana una maggiore incisività e una minore generalizzazione. Se Giordano sembra voler rappresentare un dolore universale e una solitudine esistenziale che si incarna nella rappresentazione dei suoi personaggi, ma che potrebbe riguardare chiunque, nella Di Grado abbiamo una visione molto individualistica e personale del dolore, che è a tratti così caricaturale da non poter assurgere a modello di riferimento. Sembra quasi che Giordano voglia in qualche modo dimostrare una tesi, ben definita dal titolo, la solitudine dei numeri primi, appunto, mentre la Di Grado voglia solo raccontare un caso particolare e unico per dare libero corso alla felicità della sua penna e delle sue creazioni verbali, in un gioco linguistico in cui la lingua cinese con i suoi fantasiosi ideogrammi ben si presta a diventare un protagonista , forse il più riuscito, del romanzo stesso.

Settanta acrilico trenta lana
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