Le città e i giorni di Filippo D’Angelo per Nottetempotiene insieme due storie: quella di Maurizio e quella di Emanuele che si ricongiungono nel finale con un salto all’indietro nel tempo, lì dove cominciano a divergere le loro strade. Sono due fratelli differenti in tutto.
Maurizio è un architetto milanese, che tenta la fuga a Parigi ma che viene risucchiato dal padre, architetto come lui che cerca di imporgli la propria eredità, e dalla città meneghina, con la figlia e la moglie argentina, musicista mancata.
Emanuele cerca di tagliare i ponti con la famiglia e l’occidente, in un doppio viaggio in due nazioni africane, scappando in entrambi i casi per sfuggire alle proprie scelte e responsabilità.
Possiamo dire che Maurizio sta alle città come Emanuele sta ai giorni? o invece il titolo allude ad altro?
RISPOSTA: Quando mi chiedi se Maurizio non stia alle città come Emanuele ai giorni, mi poni una domanda che mi fa molto riflettere, perché, scrivendo, non ci avevo pensato in questi termini, ma credo che in effetti sia così. Maurizio tende a privilegiare la dimensione dello spazio. Ovviamente per la sua professione di architetto, ma anche per sua inclinazione a spostarsi, a cambiare scenario: Parigi, Milano, New York, Tel Aviv, Genova, Buenos Aires… È invece incline a rimuovere, soprattutto sul piano personale, la dimensione del tempo. Che si tratti della sua relazione difficile con la moglie o del suo rapporto, ancora più complicato, col fratello, il passato resta per lui una cosa da cancellare. Il solo ambito in cui tenta di riallacciarsi al passato è proprio quello dello spazio, tramite il contributo che cerca di offrire a un progetto di riapertura dei Navigli. Emanuele, viceversa è ossessionato dal passato, sotto il segno del senso di colpa per due episodi vissuti, uno, nell’infanzia, l’altro all’età adulta. E sebbene abbia lasciato l’Occidente per vivere in un altrove radicale, nel romanzo la sua è una posizione molto statica, che interagisce poco con lo spazio. Vive nella dimensione un po’ carceraria delle sedi delle ONG e delle missioni. Il paradosso è che la vicenda di Maurizio è raccontata al passato e quella di Emanuele al presente… Il titolo può quindi, un po’ involontariamente, fare riferimento a questa dicotomia tra i due fratelli. Ma nelle mie intenzioni, più banali, si trattava di alludere al semplice fatto che le loro vicende hanno temporalità e spazi differenti.
Io non vedo l’ora di mettermi a scrivere. Hai presente quando gli uomini si preparano ad andare a giocare a calcetto, e tutti gli impegni e le responsabilità lavorative scompaiono di fronte al divertimento di andare a giocare e poi bersi qualcosa insieme? Ecco, io mi sento come loro. Non vedo l’ora di mettermi a scrivere con quell’aspettativa là. Poi non è detto che mi diverta sempre sul campo di calcio, però il mio entusiasmo è quello. È una sensazione di libertà. Non so, in realtà, se la libertà sia divertente, di sicuro è leggera. Ma, come si fa a definire la libertà? La libertà è autodefinita.
Mi arriva chiara e cristallina la voce di Valeria Parrella nell’audio whatsapp con cui abbiamo condotto il confronto sul nuovo libro, una raccolta di racconti per Feltrinelli, intitolata Piccoli miracoli e altri tradimenti, arrivato in libreria il giorno prima del mio compleanno e che io ho ricevuto – non si accettano smentite – come un regalo della scrittrice. Il mio piacere nell’ascoltarla e riascoltarla è stato tale che per un po’ ho voluto tenere quegli audio come qualcosa di intimo e personale, e solo dopo giorni riesco a metterli per iscritto e condividerli sul blog, sperando che vi arrivino l’immediatezza e l’allegria con cui Valeria Parrella ha risposto alle mie sollecitazioni.
Già per Enciclopedia della donna. Aggiornamento, pubblicato da Einaudi nel 2017, avevo percepito, confermato dalla scrittrice, che alla base di quel racconto ci fosse puro divertimento per la scrittura. Cosa che accade anche in alcuni di questi nuovi racconti. Durante la lettura, infatti, sentivo in sottofondo squillante la bella risata di Valeria Parrella e il suo spirito gioioso nei particolari e nei dettagli che caratterizzano il suo modo di raccontare, di vedere e di sentire.
Io mi sono divertita moltissimo a scrivere questi racconti. – mi conferma in un audio che è pieno di vitalità, anche perché si sente nel sottofondo la vita che brulica. E la immagino in strada, nel traffico napoletano, con i motociclisti che sfrecciano, i passi frettolosi, lo sguardo in movimento – Non ho mai sentito dolore, responsabilità, pesantezza. Niente! Anche quando ho scritto Tempo nostro che è un racconto per me molto drammatico, perché non c’è soluzione, non c’è nessun riscatto se non forse uno spiraglio nella pietas della barista, anche in quel caso mi sono divertita perché si è innescata la passione di chi legge racconti e impara un genere, di riprodurre quel genere. Mi sono divertita a fare l’imitazione dei racconti. Ad esempio in quello di Didone c’è l’imitazione di Marguerite Yourcenar in Fuochi e di Christa Wolf. Passare è l’imitazione di Cheever. L’ultima spiaggia potrebbe essere un’imitazione borgesiana: Dio compare alla protagonista, una critica d’arte, nel momento in cui lei clicca la lettera D maiuscola e poi quando torna nel luogo non si ricorda cosa le è successo. Pensa al Miracolo segreto o l’Aleph di Borges.
Loro sono più tetri. Ma io sono donna, napoletana, è chiaro che sono più allegra.
Il nuovo romanzo di Federica Manzon, Alma per Feltrinelli, ha una struttura complessa e stratificata: il presente della narrazione è affidato a tre giorni, dal venerdì alla domenica della Pasqua ortodossa, quando la protagonista, Alma, torna nella sua città natale, Trieste (mai nominata esplicitamente nel romanzo ma ben definita e riconoscibile nella determinazione di luoghi, piazze, simboli della città) per ritirare l’eredità che il padre ha lasciato lì per lei. Il ritorno sui luoghi natii è l’occasione per andare a ritroso nella memoria: il passato si biforca e si intreccia nella narrazione, da una parte quello più lontano della sua infanzia, durante gli ultimi anni e la morte del Presidente Tito, e dall’altra lo scoppio della guerra in Jugoslavia con la sua terribile carneficina.
Alma è una giornalista, trapiantata nella Capitale (anche Roma non viene mai indicata con il suo toponimo) ma la sua origine, con il melting pot che la contraddistingue, la rende sensibile a uno sguardo diverso sull’Est Europa, quando scoppia la guerra in Ucraina. È proprio questa ultima guerra, che il direttore del giornale romano per il quale lavora vorrebbe affidarle, a spingerla a fare i conti definitivi con quella precedente:
Domani si risveglierà nella capitale, andrà al lavoro e terrà un profilo bassissimo, quando il direttore le chiederà com’è andata là ad est, perché è sicura che lui aspetterà un’ora tarda per metterla alle strette, lei si morderà la lingua, non dirà una parola, non concederà nessuno spiraglio che lasci intendere qualcosa, tanto meno che ha fatto pace con il suo mondo ed è pronta a partire per raccontare questa nuova guerra, più interessante, più prestigiosa di quella vecchia che non interessava a nessuno e comunque era troppo complicata da capire. Lei non andrà in nessun est, non finirà in mezzo a nessuna guerra, e non darà confidenza.
Invece cosa ha spinto Federica Manzon a tornare a est e a raccontare con tale forza narrativa e introspettiva il fallimento del sogno jugoslavo e l’atroce guerra che l’ha sancito?
RISPOSTA: Trieste, e in modo più ampio quell’est che sta subito dopo il confine, sono per me un altrove che è al contempo un oggetto del desiderio, un richiamo dolce a partire, ad andare a vedere le storie di là, un orizzonte che è al contempo familiare e straniero. È una porta su infinite vite possibili sempre sul punto di accadere. E credo che proprio questa tensione tra attrazione e fuga, desiderio e paura, sia il fondo che anima la mia scrittura. E poi Trieste rappresenta per me un punto privilegiato da cui guardare alle questioni più urgenti del nostro vivere contemporaneo, sia nella dimensione individuale (penso alla nevrastenia mai placata di una città che vive tra continue tensioni e contraddizioni, illusioni perdute e slanci), sia in quella collettiva della Storia più grande che spesso dalla città è stata vista e vissuta in una dimensione più europea rispetto al resto d’Italia. Basti pensare alla vicinanza e intimità con il mondo jugoslavo, con quel miracoloso sogno di fratellanza e unità dei popoli durato il tempo del governo di un solo uomo, un sogno che a vederlo da vicino è stato pieno di speranza e di ombre. Così come Tito, un personaggio leggendario che univa in sé il carisma del vincitore di guerra e un certo azzardo indisciplinato, una ribalderia politica che lo teneva in equilibrio tra i due potentissimi schieramenti del mondo, senza costringerlo ad appartenere né all’uno né all’altro. Credo che guardare a quelli che sono stati gli ultimi anni di Tito al potere, allo sgretolarsi (inevitabile?) del sogno jugoslavo, alla crescita dei sentimenti nazionalisti e identitari che hanno portato a una guerra che l’Europa ha creduto di poter giocare a proprio piacimento, salvo poi lasciare che accadesse il finimondo senza sentirsi implicata, ecco credo che guardare a quello che è accaduto nel cuore del nostro mondo ci aiuti a capire meglio qualcosa dell’allarmante presente in cui siamo immersi.
Prima che chiudiate gli occhisegna l’esordio, pieno e maturo, di Morena Pedriali Errani nella narrativa. Racconta la storia, ancora troppo misconosciuta, del contributo alla Resistenza italiana e alla lotta per la libertà del popolo sinti. Nello stesso tempo assolve a un compito importante: dare voce al popolo sinti italiano perché possa raccontare direttamente la storia di cui è protagonista.
Quando il testo è arrivato in casa editrice, – chiedo ad Antonio Esposito, editor per Giulio Perrone Editore, cosa è successo?
A: In realtà il manoscritto di Pedriali Errani era atteso in redazione. Pochi mesi prima mi era capitato di leggere sulla rivista letteraria Narrandom un suo racconto dal titolo Alla cenere, in quel testo breve c’erano temi legati alla leggenda, la memoria, il tempo, il rapporto con la famiglia che mi avevano incuriosito e spinto a mettermi in contatto con l’autrice. Quando mi sono presentato e le ho parlato del nostro progetto narrativo Morena mi ha raccontato la storia che stava scrivendo, mi ha inviato delle pagine ed è andata avanti con la stesura. Poi per qualche mese non ci siamo sentiti, fino a quando non si è rifatta viva con il manoscritto definitivo. L’ho letto, insieme abbiamo discusso le possibili modifiche, e poi ho presentato la storia a Giulio, l’editore, che subito si è mostrato entusiasta.
E quando Morena Pedriali Errani è arrivata in casa editrice cosa ha provato e cosa si aspettava?
M: Ho provato subito un senso di accoglienza: è raro, per i temi che il romanzo tratta, che dall’altra parte ci sia disponibilità di ascolto, prima ancora che di confronto. Per me, è stato, quindi, estremamente prezioso trovare questa disponibilità prima nell’editor e poi in tutta la casa editrice. In realtà, non so cosa mi aspettavo, ma so cosa desideravo con tutto il cuore, ossia che la storia di mia nonna e dei partigiani rom e sinti italiani venisse, finalmente, ascoltata. La gridiamo da quasi cent’anni, ma ancora non è riconosciuta (prima ancora che conosciuta). Per me era fondamentale il messaggio, il valore familiare e collettivo, che il romanzo voleva portare e ho, quindi, accettato volentieri le modifiche proposte da Antonio, perché questo messaggio avesse una forma più potente e chiara.
Ho sempre amato leggere i diari dei grandi autori. Il primo che lessi – ero un adolescente – fu “Il mestiere di vivere” di Pavese che possiedo ancora nell’introvabile edizione de Il Saggiatore. Poi ci furono Kafka, Virginia Woolf e tanti altri. Mi ha sempre affascinato la struttura del diario, così diversa da quella del romanzo o del racconto. Non c’è trama, non può esserci. Il diario coglie gli eventi nel loro farsi, è scrittura che non si cancella, immediata, che diventa vita.
Mi sono chiesto sovente se, quando uno scrittore tiene un diario, immagina che un giorno sarà pubblicato, magari postumo. Mi sono chiesto se questo non possa incidere nella sua stesura, modificandolo e modificando il senso stesso del diario.
Risposte significative me le ha date “Perdersi”, di Annie Ernaux (L’Orma 2023) che è il diario di una passione totalizzante, pubblicato da L’Orma e ottimamente tradotto da Lorenzo Flabbi. Bisogna ringraziare L’Orma che, ben prima del Nobel, aveva pubblicato testi di Ernaux e che ora li sta ripubblicando in modo sistematico; bisogna, altresì, ringraziare Lorenzo Flabbi per le sue bellissime traduzioni da un francese apparentemente semplice, ma che, proprio per questo, nasconde numerose insidie.
Pochi dati biografici su Annie Ernaux. È nata a Lillebon, dipartimento della Senna Marittima, in Normandia, nel 1940. È una delle voci più autorevoli della letteratura francese. Studiata e pubblicata in tutto il mondo, ha reinventato le modalità di scrivere l’autobiografia (argomento sul quale tornerò più avanti) e ha trasformato il racconto della propria vita in uno strumento di indagine sociale, politica, esistenziale. Nel 2022 è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura.
Ma di cosa parla “Perdersi”? È il diario di una passione totalizzante, che Annie Ernaux tiene dal settembre 1988 all’aprile 1990, per un diplomatico sovietico di stanza a Parigi con il quale ha iniziato una relazione durante un viaggio in URSS. Una passione che cresce di giorno in giorno insieme al trasporto erotico; una passione che diventa ossessione e che l’autrice cartografa quasi quotidianamente; una passione che diventa centro della sua vita.
Fernando Bermúdez dopo trent’anni torna in libreria con il romanzo Segreto a più voci, nella traduzione di Giovanni Barone per Spartaco Edizioni. E lo fa dopo tanti anni di silenzio letterario da quel primo esordio folgorante del 1994 -la raccolta di racconti La mitad del doble che gli valse il premio Julio Cortázar in Argentina- a cui aveva fatto seguito soltanto un racconto, Mapa mundi, per il quale a Parigi fu insignito nel 1996 del premio Juan Rulfo. Questo racconto fu inserito nell’edizione italiana de La metà del doppio nel 2020, curata e tradotta da Giovanni Barone sempre per Spartaco Edizioni. Nella chiacchierata con il traduttore per l’edizione italiana dei racconti de La metà del doppio, che si discosta in parte dall’edizione argentina, come potete leggere nella rubrica Nello studio di… (QUI il link), Giovanni Barone scriveva:
“A dirla tutta, tanto mi appariva definitivo nel suo unicum quel paradigma di scrittura che mai avrei osato sperare che Bermúdez potesse veramente scrivere il romanzo promesso, come invece sembra che farà dopo ben 25 anni di silenzio”.
Affermazione che trova riscontro nell’ironica e sfavillante Auto bio-bibliografia posta alla fine del romanzo, in cui Fernando Bermúdez confessa (il testo è scritto in terza persona e non in prima): Come ha detto aGiovanni Barone, la traduzione italiana de La mitad del doble l’ha riportato sul precipizio dellascrittura, e spera con tutto il cuore che questa volta sia per sempre. Questo romanzo, dunque, è una ricaduta. Come lettrice mi associo all’augurio e alla speranza che questa ricaduta mi porti ancora ad attraversare le pagine, sempre straordinarie, che Fernando Bermúdez regala con una scrittura che, pur impregnata della migliore tradizione della letteratura argentina, innova e sperimenta con una voce nuova, insolita, sempre coinvolgente e sorprendente. Come si sente Fernando Bermúdez dopo questa ricaduta? Cosa vede sull’orlo del precipizio?
RISPOSTA: Prima di tutto voglio ringraziarti per le tue espressioni così gentili. La metafora della ricaduta era, ovviamente, in qualche modo scherzosa. Ma come ogni costruzione umoristica, si sosteneva su una verità di diverso livello. Esiste un’etica dello scrittore che impone a se stesso di scrivere per una certa quantità di ore al giorno. Ci sono scrittori che non sopportano l’idea di non sentirsi coinvolti in un progetto di scrittura, da lì s’inventano la necessità di scrivere un diario, per esempio. Qui la metafora è quella della dipendenza: ciò che lo scrittore-dipendente-dalla-scrittura teme è l’astinenza, non l’intossicazione. Nel mio caso è un po’ diverso, io scrivo quando non ho altre vie d’uscita, quando ogni altra attività mi appare priva di significato. È in questo senso che la scrittura è per me un’esagerazione, un’iperbole, una malattia in ultima istanza. Quando mi trovo dentro un progetto di scrittura, vivo i miei giorni come se stessi apparentemente facendo qualcosa di concreto e mondano, ma in realtà sto perfezionando una frase, o rendendo verosimile un personaggio da migliorare, o trovando l’intersezione tra una storia e il modo più adeguato di narrarla. È qualcosa di simile al mindfulness ma al contrario: alienato dal qui e ora dell’esistenza, ma allo stesso tempo del tutto presente in quell’altra realtà. Qualcosa come essere completamente affascinato da un film, incosciente della situazione di essere seduto in un cinema, in compagnia degli amici e con un enorme sacchetto di popcorn tra le mani.
La mia situazione attuale a seguito di questa ricaduta è intimamente legata a ciò che vedo in fondo al precipizio, cioè un romanzo che sto scrivendo in questo momento e che ha per tema, secondo il mio grande amico Gaspar Cano, la messa in scena della dissoluzione del narratore come categoria letteraria. In altre parole: sento di essere malato. Grave. Eppure, contento in qualche modo della malattia, con quella sensazione di strano confort che alcune sofferenze sono solite portare con sé: la febbre e la debilitazione come un letargo caldo e accogliente e, soprattutto, la riconoscenza per l’amabilità di coloro che a modo loro mi curano. Sono solito ribadire la mia preferenza per le forme brevi e questo nuovo progetto, che è come la costruzione di una infinita macchina per narrare, mi permette di scrivere racconti brevi in forma di romanzo. Perciò ogni incontro con gli amici, ogni conversazione, ogni aneddoto può trasformarsi in una pagina del romanzo. Mi muovo tra i miei affetti come un cannibale di storie, sempre portato a riconoscere ogni espropriazione come materia letteraria. Come ho detto prima: malato. Grave.
⟮Antes que nada, quiero agradecer tus amables palabras. La metáfora de la recaída era, claro, un poco en broma. Pero como todo giro humorístico, está sustentado por una verdad a otro nivel. Hay toda una ética del escritor que se obliga a escribir una cantidad de horas por día. Hay escritores que no soportan la idea de no estar en medio de un proyecto de escritura, y de ahí que se inventen la necesidad de escribir un diario, por ejemplo. La metáfora aquí es la de la adicción: lo que el escritor-adicto-a-la-escritura teme es la abstinencia, no la intoxicación. En mi caso es un poco diferente, yo escribo cuando no hay otra salida, cuando cualquier otra actividad se presenta como una insensatez. Es en ese sentido que la escritura es una exageración, una hipérbole, una enfermedad en última instancia. Cuando estoy en el medio de un proyecto voy por la vida como si estuviera haciendo algo concreto y mundano, pero en realidad estoy puliendo una frase, o haciendo verosímil un personaje desquiciado, o encontrando la intersección entre una historia y la manera más adecuada de narrarla. Es como una forma de mindfulness pero al revés: alienado del aquí y el ahora de la existencia, pero al mismo tiempo completamente presente en esa otra realidad. Algo así como estar completamente cautivado por una película, inconsciente de la situación de estar sentado en un cine, acompañado por amigos y por un enorme paquete de popcorn.
Mi situación actual tras esta recaída está íntimamente ligada con lo que veo en el fondo del precipicio, lo cual es una novela que en este momento estoy escribiendo, cuyo tema, según mi gran amigo Gaspar Cano, es la puesta en escena de la disolución del narrador como categoría literaria. En otras palabras: me siento enfermo. Grave. Pero dichoso en la enfermedad, con esa sensación de extraño confort que suelen acarrear algunas dolencias: la fiebre y el abatimiento como un letargo cálido y acogedor y, sobre todo, el agradecimiento por la amabilidad de los que me cuidan a su manera. Yo suelo decir que tengo una predilección por las formas breves, y este nuevo proyecto, que es como la construcción de una máquina infinita de narrar, me permite escribir relatos breves en forma de novela. Y entonces cada encuentro con amigos, cada conversación, cada anécdota puede terminar convirtiéndose en una página de la novela. Me muevo entre mis afectos como un caníbal de relatos, siempre dispuesto a reconocer cualquier despojo como materia literaria. Como dije: enfermo. Grave.⟯
Caroline Bongrand è una sceneggiatrice cinematografica francese, che con il film Eiffel diretto da Martin Bourboulon ha ottenuto una fama internazionale, e autrice di numerosi saggi e romanzi. Mi confronto con lei dopo aver letto il nuovo romanzo, pubblicato nella traduzione italiana di Francesca Bononi per Marietti1820. Il titolo originale del romanzo è Les Présences divenuto in italiano Tracce.
Che cosa crede che si sia aggiunto e cosa si sia perso per ciò che si racconta nel romanzo nel passaggio da Les Présences a Tracce?
RISPOSTA: Una traccia può essere una cosa che appartiene soltanto al passato, mentre Les Présences evoca qualcosa del presente, di ora. In realtà, il finale del libro si trova tra i due, o si compone dei due, ci sono delle presenze e ci sono delle tracce. Il titolo italiano mi sembra ottimo!
Ho molto amato il nuovo libro di Donatella Di Pietrantonio, scrittrice che aspetto sempre con impazienza a ogni nuova uscita in libreria, sin dal titolo L’età fragile, che a mio avviso tocca uno dei nervi più scoperti del nostro tempo. La fragilità, con la necessità di una nuova definizione che possa tener conto di tutte le sfumature che la parola e l’essenza della parola contengono.
Con la precisione e l’acutezza lessicale che la caratterizzano, Di Pietrantonio ha scelto nel titolo l’aggettivo del lemma, abbinato a età. Il titolo dice tanto anche della scrittura di Di Pietrantonio. Tanto più è precisa, – l’età fragile è più preciso di fragilità – tanto più si infittisce di significato.
Età come periodo della vita, o come epoca? Perché nel romanzo sono presenti entrambi. Personaggi di diverse età che si relazionano tra di loro: in modo particolare Lucia, la figlia Amanda e il padre di Lucia. Ma la stessa Lucia, che possiamo considerare il perno della narrazione, non fosse altro perché è lei a raccontarci la storia, è presentata in due diverse età, nello slittamento temporale sul quale è organizzato il romanzo: nel presente della narrazione, donna matura, fisioterapista in un piccolo paese in provincia di Pescara; e nel passato, quando ragazza fu testimone indiretta di un terribile caso di cronaca sulla montagna, Dente del Lupo, ai piedi della quale su un terreno di famiglia era stato costruito un campeggio gestito dal migliore amico del padre, Osvaldo, che lei frequenta insieme alla figlia dei gestori, Doralice.
Qual è l’età fragile narrata nel romanzo? e cos’è la fragilità per Donatella Di Pientrantonio?
RISPOSTA: Tutte le età sono fragili, nel romanzo e nella realtà. Fragile è la condizione umana, sempre esposta all’inciampo, alla caduta, alla sofferenza. Siamo vulnerabili, sempre. Amanda è la prima a pretendere per sé la definizione di fragilità: è tornata da Milano interrotta, silenziosa, chiusa in se stessa. La città che aveva scelto per gli studi con tanto entusiasmo l’ha tradita, l’ha delusa, o forse ha solo svelato una sua fragilità latente. Suo nonno invece è vecchio e malato. Non si arrende, ma vede l’orizzonte che si avvicina e ha paura. Vuole a ogni costo lasciare un’eredità scomoda, che è un terreno sporcato dal sangue di due ragazze, molti anni prima, ma è anche l’eredità del non detto, che è sempre un lascito pesante. E in mezzo c’è Lucia che racconta la storia con la sua voce di donna che non può permettersi di essere fragile. Tirata da ogni parte, dalla parte del padre che ancora pretende da lei, dalla parte di Amanda, di cui non riesce a scalfire il silenzio, il malessere. E lei, Lucia, alle prese con i bisogni degli altri, si sente spezzata.
Intorno, ma solo sullo sfondo, è un tempo fragile per tutti. La chiusura di Amanda riverbera con quella di un intero Paese e di un pianeta che è stato investito dalla pandemia. Si sta riaprendo, dopo un trauma globale. Tutti i personaggi sono però molto vivi nella loro fragilità: Lucia canta in un coro, suo padre coltiva l’orto e l’amicizia con Osvaldo, Amanda ha una sua vita interna, segreta.
La fragilità è questo per me: una condizione di vulnerabilità che ci accomuna ma alimenta anche la nostra empatia verso gli altri e la nostra creatività. È anche da quel fondo fragile che ci muoviamo “per consegnare alla morte una goccia di splendore” come canta De André riprendendo il verso di Álvaro Mutis.
Il nuovo romanzo di Eduardo Savarese, Le Madri della Sapienza, per Wojtek, segna da una parte una sterzata dalla narrativa alla quale lo scrittore napoletano ci aveva fin qui abituati, con l’invenzione di un ordine laico fondato da tre maturi omosessuali: Luciano (Cinzia), Giorgio (Olimpia) e Fernando (Gridonia) nell’ottica di un neo-monachesimo libertario e umanistico con incursioni nel fantastico e nel magico; e dall’altra una continuazione in continuo arricchimento di quelli che sono i temi a lui più cari: l’omosessualità, il travestimento, i temi etici con una forte impronta giuridica, la melomania.
Prima di incamminarci verso l’Isola dove sorge il monastero delle Madri della Sapienza, chiedo a Eduardo Savarese a che punto del suo percorso di scrittura ci troviamo con il nuovo libro e come Le Madri della Sapienza si innestino nella precedente produzione: rottura, continuità, scoperta o che altro?
RISPOSTA: Le Madri della Sapienza sono il frutto di un’osmosi tra lettura e scrittura, di una circolarità nel passaggio dall’una all’altra, per cui alcune consapevolezze di lettore hanno dato origine a consapevolezze nuove come scrittore e, viceversa, le strade intraprese nella scrittura hanno richiamato a sé certi tipi di letture. Nella mia memoria ho molto chiaro quale sia stata la lettura che mi ha aperto un mondo di possibilità immaginative: si tratta della lettura di Kurt Vonnegut, del quale, nella primavera di sei anni fa, lessi molto. Restai impressionato, tra le altre cose, dall’atto profondamente libero e necessariamente etico della scrittura in Vonnegut. Mi dissi: non devi aver paura di osare. Non devi aver paura di scrivere sentendo il diritto e l’obbligo della tua libertà, di persona, di cittadino, di autore. Ecco, le Madri sono il frutto di un processo di liberazione da una certa cattività in cui giacevo senza rendermene conto (noi viviamo sempre stati parziali di cattività rispetto a fonti luminose che attendono di gettare luce su certe nostre ombre…). Quella cattività aveva a che fare con abitudini di scrittura (consolanti, direi anche corroboranti per certi versi), ma anche, contemporaneamente, con abitudini di lettura, dei libri e del mondo, delle relazioni e dei sentimenti, delle idee e del modo in cui le comunichiamo gli uni agli altri… Se dovessi riassumere tutto quel che sto dicendo in una frase, direi che Le Madri nascono dal senso di felicità provato a sperimentare l’atto (e le tecniche) dell’affidamento in sostituzione dell’atto (e delle tecniche) del controllo. Da allora, nella scrittura e nella lettura ho cercato, per così dire, forme provocatorie rispetto alla schiavitù dell’autocontrollo a tutti i costi. Forme che, provocando, liberassero nuove energie, portassero alla luce sedimenti antichi o futuri… Tutto questo mi ha portato ad approfondire il mondo della piccola editoria indipendente, fino ad entrarvi a far parte, con Wojtek, prima come autore e poi come editore. E sicuramente senza Le Madri non sarebbero nati né È tardi, né, soprattutto, La Camera di Ondino.
Viaggio al Monte Analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca.
Paul Cézanne dipinse il Mont Sainte – Victoire ripetutamente. La sua scelta non fu dettata da una nevrotica coazione a ripetere, ma da una necessità di studio che partiva dal rapporto tra identità e differenza: partire dallo stesso monte e cogliere differenze anche minimali: di gradazione, di colore, di prospettiva. Alla ricerca dell’essenza, del senso profondo non solo di quel monte, ma anche della Natura, dell’esistenza tout court.
Non ho mai visto il monte Cocuzzo in Calabria, ma dalle fotografie che ho potuto guardare con curiosità e grande interesse ho trovato una impressionante somiglianza con il Mont Sainte-Victoire. Sembrano gemelli. Forse anche questo monte calabrese che si erge di fronte alle Eolie contiene in sé un senso che lo trascende. Per comprenderlo, per afferrarlo, bisogna passarvi attraverso.
Tutto questo mi è venuto alla mente mentre leggevo lo straordinario libro di Mauro Francesco Minervino “Viaggio al monte analogo. Monte Cocuzzo.La montagna-arca” (Oligo 2023). Un libro davvero straordinario che va sfogliato, letto e riletto, meditato; un libro che si apre con un apparato fotografico in cui il Monte Cocuzzo e il Mont Sainte-Victoire sono messi a confronto: davvero sembrano gemelli; un libro che narra, dal punto di vista antropologico, etnologico, autobiografico, di questo picco di rocce dolomitiche elevatosi in tempi remoti di fronte alle Eolie, sulle sponde tirreniche del mare dell’Odissea. Formazione geologica dell’appennino calabrese si staglia sull’orizzonte come una grande piramide, in tutto simile, come già si diceva più sopra, al Sainte-Victoire. Un territorio aspro, selvaggio, attraversato da corsi d’acqua che hanno nomi importanti come l’Acheronte, costellato da villaggi abbandonati sorti da un’antica strada carovaniera che congiungeva la mitica Pandosia al porto tirrenico di Temesa, città greca ricordata anche da Omero nell’Odissea. Una montagna-arca, un luogo dove pullulano miti e superstizioni, un luogo di narrazioni letterarie e di ricerche etnografiche, un luogo di grande bellezza. Un libro che è l’ideale continuazione del reportage realizzato dall’autore per il programma di Rai Radio 3 Le Meraviglie (26 dicembre 2020).